La Stampa, 21 febbraio 2023
Paolo Nori ha scritto un romanzo su Anna Achmatova
Ho scritto un romanzo su Anna Achmatova.
Prende il titolo da un verso, di Anna Achmatova: «Vi avverto che vivo per l’ultima volta». La prima volta che lo presenterò sarà il 24 febbraio, tre giorni dopo l’uscita e un anno esatto dopo l’inizio della cosiddetta Operazione speciale dell’esercito russo in Ucraina.
Una coincidenza.
Tutte le volte che, in questo periodo, mi hanno invitato a parlare di quello che stava succedendo in Ucraina, io ho fatto presente che non sapevo niente di geopolitica e che, al limite, avrei potuto parlare di letteratura. Non è la stessa cosa ma ci sono delle relazioni.
Negli Anni 70 e 80, in Unione Sovietica, i libri più letti erano i libri proibiti dalla censura di Stato. Se un libro era permesso, non valeva forse nemmeno la pena di leggerlo; se era proibito, probabilmente valeva qualcosa.
Oggi, in Russia, i libri degli scrittori russi contrari alla politica del Cremlino, i cosiddetti «inoagenty» (agenti stranieri), si possono comprare liberamente, ma i librai sono obbligati a venderli dentro delle buste di plastica non trasparente; da noi, anni fa, una cosa simile succedeva per le riviste pornografiche, se non ricordo male.
Una cosa che so per certo è il fatto che la cosiddetta Operazione speciale ha modificato il romanzo che stavo scrivendo; a un certo punto, è cambiato il sottotitolo. In origine era L’incredibile vita di Anna Achmatova (simile a quello del romanzo precedente, L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij), poi è diventato Noi e Anna Achmatova. Mi è successo quando ho incontrato una persona, di nazionalità russa, che viveva tra la Russia e l’Italia, e che avrebbe molto voluto parlare di quello che stava succedendo, ma non lo faceva perché in Russia aveva delle persone a cui teneva e non voleva esporle a ripercussioni. E quando alla domanda «Tornerà a Mosca?», quella persona ha risposto: «Ci tornerò, ma non so se poi ne uscirò ancora» e io, mi ricordo, ho pensato, «Questa è la Russia di Anna Achmatova».
E a quel punto, su un treno, buona parte di questo romanzo l’ho scritto sui treni, «ho pensato che raccontare la vita di Anna Achmatova, nel 2022, da lì, da quel treno che attraversava la Pianura Padana, cioè da un punto qualsiasi di quel che si chiama l’Occidente, raccontare del simbolismo, dell’acmesimo, del chiarismo, dell’adamismo, dell’imaginismo, del futurismo, dell’egofuturismo, del cubofuturismo, del raggismo, del centrifughismo, del fumismo e di tanti altri ismi che hanno popolato i primi decenni del secolo XX a Mosca e a Pietroburgo, raccontare di Parigi e di Modigliani, della Prima guerra mondiale, della Rivoluzione, della gilda dei poeti, della maternità, del divorzio, della fucilazione dell’ex marito, del cabaret Il cane randagio, di un amico che, quando leggeva le sue poesie, sembrava che si alzasse in volo un cigno, di quell’amico che andava in giro per le case di Pietroburgo a leggere ad alta voce una poesia contro Stalin, e poi scoppiava a ridere e diceva «Se lui lo sa, mi fa fucilare», dell’arresto di quell’amico, delle telefonate del Cremlino, dell’arresto del figlio, delle file davanti al più gran de carcere dell’Unione Sovietica, dei viaggi a Mosca, delle suppliche, dei divorzi, delle fucilazioni, degli appartamenti in comune, della casa sulla Fontanka, della Seconda guerra mondiale, dell’assedio di Leningrado, delle poesie patriottiche, dell’esclusione dall’Unione degli scrittori, del samizdat, dei microfoni in casa, della paura, dei tram di Pietroburgo, di come è grande la prospettiva Nevskij da attraversare, della gloria, della disperazione e della vita che è orribile e meravigliosa, per raccontare tutte queste cose, da qua, da questa nostra guerra di riflesso, da questo nostro dispiacere con in tasca la carta oro di Trenitalia, per fare questa cosa così difficile che dice Brodskij, scrivere delle cose belle, sarebbe stata necessaria una cosa semplicissima: essere buoni».
Ho fatto così in tutto il romanzo: su dei treni, avanti e indietro tra la nostra Europa e la Russia di Anna Achmatova, come dico nella nota finale.
«Ho scritto queste righe su un treno – dico – poco dopo le otto del mattino del 20 dicembre del 2022. Ero, quel mattino, uno che si era svegliato alle cinque ed era andato a correre 50 minuti nel buio che c’è tra Bologna e Casalecchio di Reno.
Scrivere questo romanzo mi sembra sia stata un’esperienza non troppo diversa. Mi son trovato a correre, per un anno e mezzo, nel buio che c’è tra la Russia, l’Ucraina e l’Italia, tra il 1889 e il 1917, e tra il 1917 e il 1946, e tra il 1946 e il 1966, e tra il 1966 e il 1989, e tra il 1989 e il 2023. Quel mattino ero anche uno, mi sono accorto poi dopo, che aveva lasciato la tessera del bancomat al supermercato, e che si era ripromesso che il giorno dopo, il 21 dicembre del 2022, sarebbe tornato al supermercato per recuperare il suo bancomat. Chissà se ce la farò, avevo pensato. Adesso che sto per consegnare definitivamente Vi avverto che vivo per l’ultima volta, ho il dubbio di essermici dimenticato dentro tante tessere del bancomat. Chissà».
Nell’ultimo paragrafo del libro ho messo in fila le mie paure. In quei giorni Dar’ja Dugina, una russa di 29 anni, figlia di Aleksandr Dugin, è stata fatta saltare in aria con la propria automobile. Mentre ci si chiedeva chi fosse stato a organizzare il delitto, molti, in Occidente, esultavano.
Il mattino dopo l’uccisione della Dugina, andando a correre sentivo, su YouTube, un’intervista a un ex agente del Kgb che adesso vive in Francia, e che ha scritto dei libri dove racconta le pratiche del Kgb, che lui, adesso, mi sembra di aver capito, condanna. Si chiama Sergej Žirnov. Quel mattino gli hanno chiesto chi, secondo lui, aveva organizzato l’omicidio della Dugina. Lui ha detto che il primo di cui sospettare è la persona che ha avuto il maggior beneficio, dalla morte di Dar’ja Dugina, cioè suo padre, Aleksander Dugin, del quale, adesso, parlano tutti, mentre prima, in Russia, non lo conosceva quasi nessuno, ha detto Žirnov. Io, in questi mesi, ho sentito dire molte cose che mi sono sembrate sbagliate, assurde, incomprensibili, paradossali, ma quella lì, di Žirnov, mi ha proprio disgustato. Mi sono fermato, nella mia corsa, ho preso il telefono, ho cambiato canale di YouTube.
E mi è tornato in mente quello che ha scritto uno che la guerra la conosce, Kurt Vonnegut, che in Mattatoio n. 5 ha scritto: «Ho detto ai miei figli che non devono, in nessuna circostanza, partecipare a un massacro, e che le notizie di massacri compiuti tra i nemici non devono riempirli di soddisfazione o di gioia. Ho anche detto loro di non lavorare per società che fabbricano congegni in grado di provocare massacri, e di esprimere il loro disprezzo per chi pensa che congegni del genere siano necessari» (la traduzione è di Luigi Brioschi).
Chi gioisce dell’esplosione di una donna di 29 anni, per quanto aberranti possano essere le idee di quella donna, secondo me è una bestia. Questa è la mia più grande paura.
Che ci facciamo invadere dalla bestialità.
Che non ci rendiamo conto di quello che stiamo diventando e che, forse, siamo già diventati.
Una volta consegnato il libro, a fine gennaio, a Bologna, sono andato a teatro a vedere uno spettacolo teatrale di Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi, Nell’impero delle Misure, che parla di una contemporanea di Anna Achmatova, Marina Cvetaeva: nello spettacolo si racconta che nel novembre del 1940 il critico Kornelij Ljucjanovi? Zelinskij dà questo giudico delle poesie che Cvetaeva vorrebbe pubblicare: «Sono palesemente poesie “di un altro mondo”, qualcosa di diametralmente opposto e addirittura ostile alle concezioni del mondo nella cui sfera vive l’uomo sovietico».
Marina Cvetaeva, saputolo, rimanda a Zelinskij la sua raccolta di poesie con una nota scritta a mano: «L’uomo che ha potuto accusare di formalismo queste poesie è semplicemente disonesto. Lo dico dal futuro».
Zelinskij sarebbe poi morto nel 1970. Chissà se, nel futuro, si è poi vergognato del suo giudizio sulle poesie di Marina Cvetaeva.
Io, l’impressione che traggo dal tuffo nel passato che rappresenta, per me, Vi avverto che vivo per l’ultima volta, è che molti di noi si vergogneranno del modo, semplicemente disonesto, che hanno avuto di reagire alla guerra in Ucraina. Ce lo dicono, dal futuro, Kurt Vonnegut, Anna Achmatova, Lev Gumilëv, Boris Pasternak, Osip Mandel’štam, Iosif Brodskij, Marina Cvetaeva e anche degli altri. —