la Repubblica, 21 febbraio 2023
Eni, Enel e Rai. La lega va all’attacco
Basta con il “metodo Giorgia”. Basta con le decisioni prese nella ridotta di Palazzo Chigi, come se l’inquilino fosse ancora il tecnico Mario Draghi. Basta con le conferme dei funzionari graditi al Quirinale, basta con il mito della continuità istituzionale. Un importante esponente leghista lo dice apertamente solo sotto la garanzia dell’anonimato: «Questo è un governo di coalizione, che ha vinto le elezioni e deve governare il Paese cinque anni. Noi qui ci siamo per cambiare le cose, ed è bene la premier non lo dimentichi». Non si tratta di voci dal sen fuggite, o di personaggi in cerca d’autore. Il mandato, esplicito, è del vicepremier Matteo Salvini. Una prima velina arriva alle agenzie di stampa nel pomeriggio: «Serve un cambiamento di linea in aziende come Eni ed Enel». Poi, una seconda, in cui alla lista si aggiunge «la Rai». La lista è molto più lunga di così: di qui a un anno scadono 135 consigli di amministrazione di altrettante società partecipate più o meno direttamente dallo Stato. Il momento delle decisioni importanti, quello per le poltrone delle grandi aziende quotate, sarà fra circa un mese: entro maggio c’è da rinnovare i consigli di amministrazione non solo di Eni ed Enel, ma anche di Poste e del gigante della difesa Leonardo.
Per uscire allo scoperto il leader leghista ha atteso l’esito del voto in Lazio e Lombardia, meno pessimo del previsto. Ed ha atteso – guarda il caso – che la premier fosse sufficientemente lontana da Roma, a Kiev, dove le sirene antiaeree danno il senso di ben altre priorità. Il vicepremier fin qui ha creato meno grane del Cavaliere. Forse memore degli errori del passato, ha evitato eccessi movimentisti. Ora ha deciso di contare di più.
Non è soddisfatto del metodo usato per le nomine fatte fin qui: ha digerito la realpolitik che ha portato alla conferma del Ragionere generale dello Stato (Biagio Mazzotta), meno quella che ha garantito i direttori dell’agenzia delle Entrate e del Demanio, Ernesto Ruffini e Alessandra Dal Verme. Agli alleati ha fatto sapere di non voler più sentir parlare di conferme a prescindere. Perfino quella di Claudio Descalzi all’Eni, a cui tutti riconoscono grande impegno per uscire in pochi mesi dalla dipendenza dal gas russo.
A Salvini non va bene che fra tutti i nomi circolati per la successione (in questo caso probabile) a Francesco Starace non ci siano nomi a lui graditi. Ne circolano almeno tre: Stefano Donnarumma, Matteo Del Fante, Francesco Venturini. Vuole contare nelle decisioni sulla televisione pubblica: prima di Sanremo la premier aveva accarezzato l’ipotesi di lasciare Carlo Fuortes come amministratore delegato fino alla scadenza del mandato, a luglio 2024. Ora chissà. La Rai era e resta una delle questioni più divisive fra i partiti del centrodestra: Meloni non ha mai dimenticato l’accordo fra Berlusconi e Salvini con cui – il premier era Draghi – lasciarono Fratelli d’Italia in un angolo, incapace di esprimere un solo consigliere di amministrazione. Salvini non è entusiasta del progetto di Meloni di nominare Roberto Cingolani successore di Alessandro Profumo a Leonardo. Un’idea alla quale è contrario anche il ministro della Difesa Guido Crosetto, sponsor invece di un altro manager interno, Lorenzo Mariani. In ogni caso Salvini vuole – per dirla con le parole della fonte autorizzata- «almeno una delle poltrone pesanti» in scadenza: in cima alle preferenze c’è l’Enel.
Al Tesoro – oggi retto dal meno salviniano dei leghisti – regna il silenzio. L’asse fra la premier e Giancarlo Giorgetti ha fin qui evitato strappi. In alcuni casi è servito a prendere tempo, come nel caso del nuovo direttore generale del Tesoro. Una volta scelto il capoeconomista Riccardo Barbieri per rappresentare l’Italia nelle istituzioni internazionali, si è persa traccia del progetto annunciato da Giorgetti di riorganizzazione del ministero, così da permettere la scelta di un funzionario vicino ai partiti proprio per gestire le società pubbliche.
Fin qui l’asse Meloni-Giorgetti ha garantito più conferme che cambiamenti. L’ultima in ordine di tempo è quella del presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo, graditissimo alla coalizione: grazie ad una norma ad hoc resterà da pensionato, e con stipendio. Un altro caso aperto è quello di Pasquale Tridico, voluto all’Inps dai Cinque Stelle. Lui vorrebbe restare fino al 2024, forte di un parere dell’Avvocatura dello Stato che prolungherebbe il mandato alla ricostituzione del consiglio di amministrazione un anno dopo il suo arrivo, ma Salvini ha messo gli occhi anche su quella poltrona. Benché le amministrative l’abbiano resa una premier più forte che mai, Giorgia Meloni non potrà far finta di nulla. Il decreto di riforma del Piano nazionale delle riforme è stato solo l’antipasto: il ministro degli Affari comunitari Raffaele Fitto ha faticato per far digerire a Bruxelles la norma che permette di sostituire i capi missione dei singoli ministeri. Chi l’ha voluta è sempre lui, il Capitano vicepremier.—