Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  febbraio 21 Martedì calendario

Chef senza ristorante

Il caso più eclatante dell’anno è stato quello di René Redzepi, pluripremiato chef del ristorante Noma di Copenaghen, più volte numero uno della classifica mondiale dei 50 Best Restaurants: nel 2024 il suo locale chiuderà per due anni. Il cuoco danese ha annunciato una «totale riorganizzazione dei luoghi di lavoro e dello staff» per la necessità di ripensare un settore non più sostenibile nei prezzi come nella gestione dei ritmi di vita del personale.
Ma anche in Italia chiusure e ripensamenti eccellenti non mancano. Lo chef Filippo Lamantia ha spiegato a IlGusto.it che si accinge a sospendere il servizio al Mercato Centrale di Milano per le difficoltà legate al personale: «La brigata completa era di 15 persone, ora siamo sette, non voglio arrivare a fine servizio con l’affanno». Da qui l’intenzione di rivedere il format. Nelle ultime 24 ore la notizia che ha colpito gli appassionati di gastronomia è quella del ristorante St. Hubertus all’interno dell’hotel Rosa Alpina a San Cassiano, che dopo l’ingresso nell’assetto proprietario del gruppo Aman a fianco della famiglia Pizzinini, chiuderà il 24 marzo per lavori di ristrutturazione, per riaprire in una nuova veste e senza l’attuale chef Norbert Niederkofler, che pure in venti anni ha scalato i vertici della cucina internazionale fino alla terza stella Michelin.
«Dobbiamo ridefinire il concept del ristorante – ha spiegato Ursula Mahlknecht Pizzinini – che sarà più piccolo e con un’altra formula». Lo chef, ha sottolineato Pizzinini, resterà comunque parte del “think tank” del gruppo.
Storie diverse tra loro, ma che insieme segnano un cambiamento nell’alta cucina, presa dalla difficoltà di trovare un equilibrio tra ritorno economico e performance culinaria, che in un ristorante stellato deve essere altissima.
«Gli standard a cui sono arrivati molti ristoranti sottintendono una struttura di costi importante, perché un ristorante stellato ha di fronte una sfida doppia: quella dell’esperienza gastronomica e quella imprenditoriale» spiega Massimo Bergami, professore di Organizzazione Aziendale, Dean di Bologna Business School.
Secondo Bergami «in questa competizione globale il livello atteso tende a crescere insieme ai costi. Non a caso molti chef puntano sulla creazione di un gruppo di locali, di posizionamento diverso tra loro, e in collaborazioni con gruppi della moda e del design. Ed è complicato soprattutto per i ristoranti piccoli,con pochi tavoli».
A conferma di queste parole lo chef Enrico Bartolini, il più stellato d’Italia con i suoi diversi ristoranti, in primis il tre stelle Mudec, dichiara che gli obiettivi economici vanno programmati per rientrare nel bilancio: «In quindici anni da piccolo imprenditore ho sempre ampliato le vedute, guardando al mondo dei bistrot e degli eventi».
«Premesso che la scelta iniziale non è quella di essere stellati – dice lo chef toscano – ma di impostare il lavoro mirato alla massima attenzione sull’ospite, penso ai clienti come persone che investono sulla loro cena, alimentando la sostenibilità del locale. Quel che dobbiamo temere non è l’ospite che si lamenta per il prezzo ma per un’esperienza non memorabile».
Ed eccoci allora al tema prezzi. «È possibile guadagnare, certo, ma i margini – sottolinea Ernesto Iaccarino del Don Alfonso 1890, due stelle Michelin a Sant’Agata sui due Golfi – non sono quelli che si potrebbe immaginare. Basti pensare che già la materia prima rende i bilanci più impegnativi».
Poi ci sono le difficoltà tutte italiane del settore: «I costi dell’energia sono altissimi. E poi c’è il costo del personale che è il più alto d’Europa insieme alla Germania. E la pressione fiscale sul costo del lavoro fa sì che non si crei un circolo virtuoso. Quando si parla di ristorazione sostenibile si intende anche economicamente». Dunque, c’è futuroper l’alta ristorazione? Assolutamente sì, secondo Bergami, «la ristorazione di lusso può farcela come il mondo delle automobili, dell’hotellerie, della moda e del design, a patto che si abbiano le idee chiare sul modello di business e che si punti sulla formazione».