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 2023  febbraio 21 Martedì calendario

Dieci anni di Bergoglio

Al momento clou il Papa non si è presentato. Allo sconcerto stampato inizialmente sui volti dei vescovi tedeschi, però, è lentamente subentrato un sorriso. Vaticano, novembre scorso. La conferenza episcopale della Germania è in visita a Roma ad limina apostolorum, sulle tombe degli apostoli. L’appuntamento è periodico, grosso modo ogni cinque anni, e tocca a tutti gli episcopati del mondo. Questa volta, però, c’è qualcosa di straordinario. Sconvolta dalla crisi degli abusi sessuali, la Chiesa tedesca ha infatti avviato, a dicembre 2019, un percorso sinodale per affrontare, vescovi e laici insieme, i nodi sottostanti il problema della pedofilia del clero, nella convinzione che ogni abuso sessuale sia, in realtà, un abuso di potere. E dunque si parla, liberamente, di celibato obbligatorio, morale sessuale, ruolo marginale delledonne.
La sedia vuota del pontefice
Di assemblea in assemblea, però di voto in voto, a Roma cresce l’apprensione. «Sono temi che riguardano la Chiesa universale e non possono essere oggetto di deliberazioni o decisioni di una Chiesa particolare», l’obiezione. Lo stesso Papa Francesco, in realtà, è «un po’ preoccupato», confida ai suoi interlocutori. Arriva a evocare l’accusa di essere, sotto sotto, un po’ luterani: «In Germania c’è già una bella Chiesa evangelica, non ne serve un’altra».
Ma quando, alla fine degli incontri in Vaticano, viene convocato un confronto tra i 62 vescovi tedeschi e i capi dicastero della Curia romana, Francesco dà forfait. I presuli tedeschi inizialmente sono delusi ma pian piano realizzano il significato più profondo di quella sedia vuota. Il Pontefice non ha voluto giocare da “capo” della squadra romana contrapposta a quella tedesca: rimanendo fuori si è ritagliato il ruolo di arbitro della partita. Non si è certoschierato con i tedeschi, ma neppure con il Vaticano. Nel corso di dieci anni di pontificato, del resto, ha ridimensionato, frenato, terremotato la Curia romana. Una devolution che si capisce facendo qualche passo indietro.
La guerra alla lebbra del papato
La Curia vive i suoi anni d’oro con Giovanni Paolo. Il pontefice polacco delega molto ai suoi collaboratori, tanto più negli ultimi anni del pontificato segnati dalla malattia. L’apparato acquista spazio, non senza opacità. Incubando problemi – abusi sessuali, scandali finanziari, lotte di potere – che esplodono sotto Benedetto XVI. Il teologo tedesco li vede ma l’arte del governo non è il suo forte. Non riforma la Curia ma con la rinuncia, otto anni dopo, le assesta un ceffone simbolico. Aprendo le porte a un conclave ben diverso da quello sognato nei sacri palazzi.
Jorge Mario Bergoglio ha portato il “complesso antiromano” (copyright del teologo Hans Urs von Balthasar) nel cuore di Roma. Sin dall’inizio il Papa venuto «quasi dalla fine del mondo» indica che la Curia non dev’essere «una pesante dogana burocratica”». «La corte è la lebbra del papato», confida a Eugenio Scalfari già nell’autunno 2013: «La visioneVaticano-centrica trascura il mondo che ci circonda. Non condivido questa visione e farò di tutto per cambiarla». Era un programma di governo. Cristallizzato quasi dieci anni dopo nella costituzione apostolica Praedicate Evangelium (2022), che ridisegna, non senza qualche incoerenza, l’organigramma vaticano. Vengono accorpati vari dicasteri, la Dottrina della fede perde il primato, sale l’Evangelizzazione. Ma già prima il pontefice argentino ha silenziato molte esuberanze dei suoi uffici. Frequenti in passato, le pubblicazioni di documenti e pronunciamenti delle principali congregazioni si contano sulle dita di una mano.Uno spoyls sistem al rallentatore
Da arcivescovo di Buenos Aires mal sopportava le prepotenze romane, da Papa si impegna a decentrare. Trasferisce alcune competenze alle conferenze episcopali. Concede loro maggiore autonomia nella traduzione dei testi liturgici, e quando il cardinale Robert Sarah prova a smentirlo, con un’interpretazione restrittiva del provvedimento di Bergoglio, questi lo sconfessa pubblicamente. Va a toccare anche i soldi, quando crea il fondo “Populorum progressio” per trasferire la gestione degli aiuti per le comunità indigene al consiglio episcopale latinoamericano (Celam). Il malumore a Roma è palpabile. Chiama accanto a sé un gruppo di cardinali consiglieri dei cinque continenti che si sovrappone agli uffici vaticani. Sceglie di vivere a Casa Santa Marta e gestisce la propria agenda sottraendosi al controllo della prefettura della casa pontificia. Adotta uno spoils systemal rallentatore ma la diffidenza reciproca con la Curia romana riaffiora ciclicamente. E gli procura critiche abrasive.
Il Vaticano a Buenos Aires
«Vi è come una sorta di cerchio magico che gravita attorno a Santa Marta», lo attacca il cardinale Gerhard Ludwig Müller, un tedesco più ratzingeriano di Ratzinger. Quando il teologo argentino Victor Manuel Fernandez si spinge a vagheggiare che il Vaticano potrebbe spostarsi a Buenos Aires, Rio, Montevideo, Müller insorge, attribuendo l’idea a Francesco. Il quale, va detto, qualche argomento ai suoi detrattori lo offre. Punta a decentrare ma a volte, all’improvviso, accentra le decisioni, interviene d’imperio, bypassa i suoi stessi uomini, si impegola in problematiche di gestione minuta. Non sempre azzecca le nomine. Erratico nella tattica, Jorge Mario Bergoglio è però scientifico nella strategia. Complice la dieta dimagrante obbligata dallo strutturale calo delle offerte che arrivano in Vaticano, persegue il decentramento per lasciare spazio alle Chiese locali, ridimensiona la burocrazia vaticana per far respirare il cattolicesimo mondiale.
Rivitalizza il sinodo, facendo precedere le assemblee dei vescovi da una consultazione del popolo di Dio realizzata, con alterne fortune, tramite questionari, assemblee in parrocchia, interviste online. Nel 2019 ha indetto un grande sinodo globale che durerà fino al 2024 per coinvolgere tutti, progressisti e conservatori, occidentali e orientali, chierici e laici, nella definizione della Chiesa di domani. Ai sinodi degli anni passati i partecipanti se le sono date disanta ragione, sulla comunione ai divorziati risposati o sulla benedizione delle coppie gay, sui preti sposati o sulle donne diacono. La stessa cosa accade ora: accanto ai tedeschi che spingono per le riforme ci sono i polacchi che temono il piano inclinato della scristianizzazione e gli statunitensi allarmati dall’aborto, le divergenze sono profonde tra Paesi secolarizzati e Paesi più tradizionali, tra Chiese ricche e Chiese povere. Francesco ritiene però che, se cacofonie e tensioni non emergessero, prima o poi esploderebbero. E che in questo modo possano invece riassorbirsi in una nuova sintesi – «unità nella diversità» – dando nuova vitalità alla Chiesa.
La montagna e il topolino
La montagna può partorire il proverbiale topolino. O invece si può innescare la dinamica che emerse al Concilio vaticano II (1962-1965): il “partito romano” pian piano si trovò accerchiato dalle istanze dei padri conciliari di tutto il mondo. La Curia cercò di resistere, in parte anche di boicottare la ventata di novità, poi cedette. Si trovò un compromesso e ne uscì una Chiesa più aperta.
Quando i vescovi arrivano a Roma da tutto il mondo si stupiscono che, oggi, il pontefice e i suoi collaboratori ascoltino, dialoghino. Provino a trovare insieme soluzioni a problemi che non sarà Roma, da sola, a risolvere. Fino a una manciata di anni fa, chi arrivava in Vaticano doveva sedere e ascoltare. Istruzioni, indicazioni, a volte rimbrotti. Oggi, racconta un vescovo del Nord Europa, «si possono sviscerare insieme questioni che solo dieci anni fa non potevano neppure essere abbordate». Il vescovo di Roma ha ridimensionato la Curia romana per dare al cattolicesimo mondiale lo spazio di esprimersi. Perché anche in futuro la Chiesa cattolica universale possa trovare in Roma il fondamento per proiettarsi nel mondo, non il soffocante perimetro: un punto di partenza e non di arrivo.Continua