il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2023
Elkann, il tocco del padrone che fa male a Repubblica
Non è facile trattare sine ira et studio (ma sì, scomodiamo pure Tacito!), ovvero con pacatezza, vicende editoriali che ci hanno coinvolto personalmente, determinando scelte differenti anche fra amici di una vita. Ma ormai è tempo di bilanci.
Sono trascorsi quasi tre anni dacché John Elkann ha assunto il controllo azionario di Repubblica e di tutto il Gruppo Gedi. Si è presentato nel 2020 col biglietto da visita del decisionismo, forte delle fusioni internazionali e delle diversificazioni finanziarie che hanno garantito un cospicuo incremento di dividendi alla compagine degli azionisti Exor, mettendoli al riparo da un’eccessiva dipendenza dalle sorti dell’industria automobilistica. Per la verità, all’epoca molti si chiesero perché mai Elkann volesse investire in un settore insidioso e sempre meno redditizio come l’editoria, dopo che Marchionne l’aveva incoraggiato a venirne fuori. Ma in fondo si trattava di impegnare solo poche risorse in proporzione agli utili di Exor; e se Elkann ci puntava, si supponeva, doveva pur avere in testa una strategia vincente.
Fatto sta che arrivò licenziando in tronco il direttore di Repubblica, piazzando uomini di sua stretta fiducia, e annunciando un ambizioso piano di rilancio delle testate che le allineasse agli standard internazionali del nuovo giornalismo digitale. Il tutto, prometteva, nel rispetto del loro profilo politico e culturale.
Le cose, ora lo sappiamo, sono andate diversamente. MicroMega liquidata al suo fondatore Paolo Flores d’Arcais. L’Espresso venduto al finanziere Danilo Iervolino. Avviato un piano di dismissione dei giornali locali. Un comparto aziendale che si occupa dei video ceduto ad Accenture. Intanto, l’emorragia di copie vendute in edicola proseguiva con percentuali ben più gravi della concorrenza; e la competizione per il primato con il Corriere della Sera resta solo un lontano ricordo.
Così si è arrivati alla riunione di settimana scorsa fra l’azienda e le rappresentanze sindacali dei giornalisti al termine della quale questi ultimi hanno lanciato l’allarme – “Siamo tutti in vendita” – e hanno proclamato uno sciopero. Il management Gedi ha replicato che si trattava di un equivoco, deprecando l’“allarmismo” dei comitati di redazione. Ma i giornalisti ricordano che anche due mesi fa era stata smentita l’esistenza di una trattativa per cedere le testate del Nord-Est, salvo poi constatarne lo stato avanzato. Stavolta, peraltro, l’amministratore delegato Maurizio Scanavino si è limitato a una risposta evasiva anche riguardo alla sorte futura di Repubblica e La Stampa.
Facciamo un passo indietro. Assunto il controllo di Repubblica, fin dai primi giorni la nuova direzione vi impresse una sterzata di linea editoriale all’insegna dell’atlantismo in politica internazionale – con sostegno esplicito alla presidenza Trump – e un attacco altrettanto esplicito al governo Pd-M5S. Già da tempo scricchiolava quello che era stato il capolavoro di Eugenio Scalfari: fare di Repubblica il luogo d’incontro fra la borghesia progressista di estrazione laica e il popolo di sinistra bisognoso di nuovi riferimenti dopo la fine del Pci. Quel mirabile compromesso aveva portato al giornale centinaia di migliaia di lettori che s’identificavano nella sua visione del mondo e nelle sue campagne d’opinione. Un incantesimo che forse nell’Italia contemporanea, percorsa dal vento dell’antipolitica e afflitta dalla miopia del suo establishment, non poteva prolungarsi. Convinta di rappresentare un potere sovranazionale emergente, la nuova direzione volle farsi interprete del nuovo spirito dei tempi. Azzeccò la previsione dell’imminente invasione russa in Ucraina. Contribuì a mettere nell’angolo il Pd convincendolo del prossimo rapido declino dei 5stelle e inducendolo a sposare il progetto del governo Draghi.
Pazienza se atlantismo bellicoso e culto del modello tecnocratico provocavano un rapido distacco dei vecchi lettori senza rimpiazzarli con un nuovo pubblico. Pazienza se gli introiti degli abbonamenti digitali non compensavano minimamente il mancato incasso delle vendite in edicola. L’idea era: distruggere per ricostruire, tanto il futuro prima o poi si sarebbe manifestato.
Ancora nel gennaio scorso, in un’apologetica intervista rilasciata alle testate di sua proprietà per commemorare nel ventennale della morte suo nonno Gianni Agnelli, John Elkann esibiva toni trionfalistici: “Repubblica sta andando bene: ormai da mesi supera il principale concorrente, il Corriere della Sera, per numero di utenti unici. Gedi è una bellissima organizzazione editoriale. Forti del nostro passato, stiamo costruendo il nostro futuro”.
La realtà aziendale è ben diversa, nonostante le promozioni finanziate in perdita anche nel settore digitale. E quanto al piano politico, l’orizzonte di una guerra senza sbocchi inquieta sempre più l’opinione pubblica; il miraggio del Governo dei Migliori è andato a sbattere contro la vittoria elettorale di Giorgia Meloni; il Pd si lecca le ferite dopo essere caduto nella trappola della tecnocrazia.
Così Elkann si trova adesso di fronte a un dilemma: continuare a ripianare bilanci in profondo rosso, tagliando alcuni rami d’azienda (se lo può permettere, visti gli utili di Exor, ma va contro i suoi criteri aziendali); oppure riconoscere l’errore e tornare sui suoi passi cercando un compratore sul mercato. In Italia, si sa, non mancano imprenditori che per farsi largo dentro al sistema sono disposti a sobbarcarsi giornali in perdita che però servono da strumenti di pressione sul governo.
Anche Exor, per la verità, alle prese con partite spinose come l’auto elettrica, la crisi della Juventus e le cause giudiziarie che rischiano di rimetterne in discussione l’assetto azionario, continua ad avere bisogno di stampa amica. Ma, per tradizione e per necessità, l’ha sempre cercata in ambito filogovernativo. Ciò che non gli è garantito dagli orientamenti delle redazioni di Repubblica e de La Stampa.
Non è un bel momento per la libera informazione e nessuna azienda editoriale se la passa bene, alle prese con la rivoluzione digitale. Ma la tempesta che scuote il Gruppo Gedi fa caso a sé. Ci racconta come l’impronta padronale sui giornali s’intrecci con i sommovimenti più profondi in corso nella società e nella classe dirigente del Paese.