La Stampa, 20 febbraio 2023
La strategia per l’Europa di Giuliano Amato
L’Europa è sempre stata al centro nella visione del Presidente Ciampi. Come egli affermava, già dai tempi di Mazzini, la valorizzazione del Paese doveva essere fondamentale nell’ambito europeo. La stessa Italia per Ciampi, la crescita della Nazione, doveva andare di pari passo con la crescita dell’Europa, l’una non poteva escludere l’altra.Per questo il concetto di «autonomia strategica» è da considerarsi ad oggi problematico, un concetto al quale va posta un’accurata riflessione. Tale nozione ebbe il suo primo riferimento già nel 2013, quando apparve in un documento europeo a seguito di una riunione del Consiglio Affari Generali dei ministri degli Esteri, ove si pose il problema dell’autonomia strategica nel quadro dell’Unione europea.Ed è proprio da qui che, a mio parere, nascono le due più grandi differenze, che pongono le basi per una prospettiva positiva, da una parte l’esercito europeo e dall’altra la Nato. Furono, infatti, per primi gli Stati Uniti a porre le basi di questo concetto, con le parole di Obama nel lontano 2013, che affidava ad ogni Stato le sue responsabilità per difendere la libertà. Lo sviluppo di quella dottrina è stata più una devianza dalla stessa che un avvicinamento.In una visione in cui, pur permanendo l’Alleanza atlantica, ciascun Paese membro potesse intervenire d’accordo con la Nato avrebbe avuto senso, come sarebbe accaduto nel caso del Kosovo.L’«autonomia strategica» in materia di difesa, nonostante la sua problematicità, sarebbe stata coerente realizzarla, sebbene le relazioni tra industria militare e governi siano sempre state molto complicate.A partire dagli Anni 90, con il trattato di Lisbona, tale concetto è passato dalla difesa all’economia per cui, unendosi gli Stati, avrebbero potuto perseguire l’obiettivo nazionale di spendere meno e produrre in modo più efficiente.Questa strategia, però, non è stata mai applicata, perché nessun governo voleva perdere la sua potenza nazionale. E fu così che nel 2016 apparirono i primi documenti di strategia globale, partendo da un referendum della Brexit del Regno Unito dove si applicarono la nozione di autonomia strategica insieme alle autorità militari ed economiche.Il documento della Commissione, che appare dopo il referendum che approva la Brexit nel Regno Unito, applica la nozione di autonomia strategica all’insieme delle attività militari ed economiche. In particolare, nell’anno successivo, il 2017, si arriva all’esplicita menzione di aree economiche di produzioni per le quali è importante l’autonomia strategica.È da notare come, proprio in quell’anno, Macron sollevi entusiasmi tra gli europeisti di tutta l’Unione quando parla di sovranità europea. L’entusiasmo è legato al fatto che la Francia, che più di tutti i Paesi aveva difeso la sovranità nazionale dai tempi di De Gaulle in poi, per la prima volta attraverso il suo Presidente, trasferiva l’aspettativa di sovranità dal livello nazionale al livello europeo. Nessuno aveva mai concepito l’Unione europea come un soggetto destinato ad essere titolare di una sovranità, da sempre ritenuta una prerogativa degli Stati nazionali.Sul piano politico, però, fu molto importante che il Presidente della Repubblica francese esprimesse il concetto di sovranità europea: non porre un limite derivante dalla propria sovranità agli sviluppi e alle grandi trasformazioni che possono presentarsi in Europa. La nozione di autonomia strategica, infatti, passa dal settore militare, al settore delle tecnologie, a quello delle produzioni e dell’energia sino a quello agricolo-alimentare.L’accelerazione, che oggi stiamo vivendo, si è compiuta un colpo dopo l’altro, con la pandemia e la guerra. Infatti, è necessario legare l’idea di autonomia strategica alle vicende del mondo globale e alle vicende di un’economia che, nel corso degli anni si è globalizzata, creando quelle che si chiamano le «supply chains», da cui scaturiscono poi i prodotti finale su scala planetaria (...).I consumatori hanno quindi finito con l’usufruire di prodotti senza avere la necessità di controllare l’origine, ma, anzi, beneficiando di un costo minore. È stato questo il fattore che è venuto a mancare e che ha fortemente sconvolto le nostre economie tra pandemia e guerra.Questi eventi altamente critici, essendosi sommati, hanno portato a dei blocchi nel commercio dove prima non c’erano e, quindi, ad uno stallo nel sistema degli approvvigionamenti dai Paesi produttori, per una serie di motivi, tra cui, ad esempio, un aumento del rischio di trasporto del virus tramite queste merci. Si veda il caso delle mascherine, non prodotte localmente, che dovevano essere necessariamente importate da Paesi con cui era momentaneamente rischioso entrare in commercio.Questo fenomeno si è, dunque, ampliato a causa della pandemia e ha portato all’idea di dover raggiungere una certa autonomia in termini di produzione di beni strategici, poiché i commerci non avvenivano più a livello globale. Si inizia quindi a parlare di de-globalizzazione.Ne consegue che l’autonomia strategica, che aveva un significato limitato, quando inizialmente si era trasferita dalla difesa all’economia, subisce una mutazione radicale.In questa nuova situazione globale, in qualunque momento, beni prodotti da Paesi terzi e necessari per le nostre economie potrebbero non essere più disponibili per l’acquisto. Si è quindi cominciato a ipotizzare che, in questo mutato contesto, per essere autonomi bisognasse fare qualcosa in più, cioè mettere dei fondi a disposizione e a favore di coloro che stavano producendo questi beni strategici, seppur in piccole quantità, o che avrebbero potuto iniziare la produzione ex novo.A questo punto la problematica può dividersi in due questioni. La prima è inerente al «chi è autonomo?».Una figura come Ciampi non avrebbe avuto dubbi sul fatto che l’autonomia strategica sarebbe dovuta essere di livello europea e non di ogni singolo Paese poiché, trovandoci davanti a una frammentazione del commercio mondiale, reagire dividendo l’Europa non è la soluzione ottimale, essendo peraltro l’idea stessa di autonomia strategica nata ed intesa come europea.La seconda questione riguarda la domanda «da chi si è autonomi?».Se si è dominati dalla paura che una pandemia globale possa bloccare i rapporti con una parte del mondo, non vi è distinzione tra i Paesi ed è quindi necessario essere autonomi tanto dalla Cina, quanto dall’Africa o dagli Stati Uniti.Ci si trova così nella necessità, per fronteggiare questa evenienza, di produrre tutto internamente, anche se questa può risultare una possibilità estrema.A questo punto si pone un altro problema, peraltro recentemente sollevato in un editoriale dell’Economist: qual è la ragione di utilizzare dei fondi europei per produrre internamente dei beni che Paesi, come gli Stati Uniti, produrranno con i loro fondi? Cosa potrebbe impedire agli europei di acquistare questi beni altrove una volta pronti? Qual è il motivo dietro questa spesa all’apparenza inutile? (...)Possiamo ora analizzare tre questioni diverse. La prima riguarda il fatto che l’autonomia strategica dovrà intendersi dell’Unione europea e della sua economia. Ciò significa che tale autonomia non potrà attuarsi attraverso modalità con cui ciascun Paese tratta le proprie industrie. Questa non sarebbe una strategia comune ai Paesi membri ma si conformerebbe ai tradizionali aiuti di stato, ciascuno ai suoi.La seconda questione è che una tale autonomia strategica presuppone un determinato assetto dei rapporti esterni. Sebbene la tendenza al protezionismo nazionale si sia diffusa negli Stati Uniti, soprattutto sotto la presidenza Trump, e che questa abbia portato a delle intemperanze, il libero commercio tra Stati Uniti ed Unione europea può essere ritenuto la premessa maggiore e non quella marginale. In questo quadro, la domanda dell’Economist analizzata sopra ha denso significato.La terza questione riguarda la localizzazione della strategia stessa. Infatti, ai fini dello sviluppo sostenibile è impensabile che l’Unione europea non leghi sé stessa ai Paesi mediterranei ed alcuni di quelli africani, poiché altrimenti l’autonomia strategica perderebbe la sua aderenza. (...).Vi è una chiosa che è importante da fare, poiché questa sostenibilità va intesa in senso economico. Ciò che serve ai fini di uno sviluppo sostenibile è la possibilità di avvalersi di materie prime e di beni strumentali che sono rari e particolarmente costosi per noi, quali ad esempio i minerali e i beni utili per le produzioni di oggetti elettronici, come microchip, batterie e cellulari.Essendo queste «terre rare», se ciascuno si presenta non in grandi blocchi economici ma come singolo Paese che avanza la propria richiesta, allora la diretta conseguenza, per la legge di mercato, è che i prezzi raggiungono livelli insostenibili. Ne segue che il costo che viene a gravare sull’economia, dovuto alla frammentazione delle autonomie strategiche, diventa difficilmente sostenibile a prezzi che siano compatibili con un uso dei prodotti su larga scala.Quello che sta oggi accadendo non procede nella corretta direzione. Ciò non mette in discussione l’autonomia strategica ma la nostra capacità di realizzarla, così come accadde all’origine in campo militare, per la quale ci rivelammo incapaci persino di mettere insieme le nostre industrie di armamenti.È di tutta evidenza notare come ci siano due snodi strategici ai fini dell’impianto che l’autonomia strategica dovrebbe avere. Uno è il rapporto con gli Stati Uniti.È iniziata una legislatura con un Congresso poco illuminato, che avrebbe potuto emanare proposte migliori dell’«Inflation Reduction Act». Questa è una legge di sussidi all’insegna del «Buy American», ovvero chi produce negli Stati Uniti ha più benefici, creando una situazione tale per cui anche industrie europee insediatesi in uno Stato, ad esempio in Alabama, possono usufruirne.Si tratta di una strategia miope che non tiene conto di un’ottica comune all’Unione europea. Personalmente, mi ritengo un nostalgico del Ttip, il trattato transatlantico sul commercio, risalente al periodo che va dal 2010 al 2016 e ufficialmente terminato sotto la presidenza Trump. In esso si era immaginata un’area di libero commercio totale, in pratica un allargamento del nostro mercato unico agli Stati Uniti.I benefici per le rispettive economie sarebbero stati elevati. Vennero comunque fuori una serie di obiezioni, perché gli standard per i prodotti alimentari degli Stati Uniti avrebbero potuto essere definiti in termini più blandi rispetto a quelli utilizzati nell’Unione europea. Questo, tra le altre cose, è un tema ricorrente dopo la Brexit.Mi permetto di avanzare un primo punto, in funzione di una futura autonomia strategica comune, essendo già l’Unione Europea e Stati Uniti in posizioni simili, tranne che per l’area dell’hi-tech, dove possediamo la metà delle imprese rispetto agli americani.Si potrebbe creare un Ttip di tipo selettivo con produzioni che mirano ai fini di una autonomia strategica comune. È un discorso ancora aperto ed è necessario che qualcuno lo affronti e non in un modo leggero.È noto che nell’Unione Europea le relazioni commerciali esterne sono oggetto di una delle poche competenze esclusive dell’Unione stessa. Per rappresentare una visione unitaria dell’Occidente agli occhi del mondo, bisognerà allora aprire la strada ad un disegno più generale dove i vertici di Bruxelles si presentino a Washington con una voce unica, e non con le delegazioni dei singoli Paesi. (...)Un secondo punto è che per dirsi «europea» l’autonomia strategica deve innanzitutto essere europea la politica industriale che la attua ed europei i fondi che finanziano a loro volta la politica industriale.C’è chi obietta come sia difficile realizzare una politica industriale europea in settori come l’automobile o la chimica, perché è difficile «europeizzare» queste filiere che sono fortemente radicate a livello nazionale.Ciò non impedisce, però, che si possa fare una politica industriale europea in ambiti selettivi, identificando alcuni settori strategici dove c’è maggiore carenza, come soprattutto l’high tech, dominato dalle grandi compagnie americane. Bisognerà individuare anche quelle tecnologie in cui gli europei, in alcuni casi limitati, siano addirittura più avanti degli americani. Ad esempio, quando si è trattato di fare la concorrenza alla Boeing, è stata realizzata con l’Airbus un’industria europea, che non aveva nulla di nazionale.Si potrebbe tentare lo stesso approccio nel settore dell’innovazione, finanziandolo con fondi europei, anche se le conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo dicono che per fare un fondo comune europeo occorre tempo e nel frattempo si può far ricorso agli aiuti di Stato.Era prevedibile l’opposizione dei Paesi debitori, in quanto siamo tutti consapevoli del potenziale della Germania e della Francia rispetto ad altri Paesi, come l’Italia.Non so quanto l’uso flessibile dei fondi del Pnrr in Italia ed altrove, così come per il «Next Generation Eu» e gli aiuti di Stato, sia propedeutico alla creazione di un vero fondo comune europeo e, quindi, all’impostazione di una politica industriale, dove ciascuno continua ad usare la propria discrezionalità a livello nazionale.Giunti a questo punto ripercorro il mio ragionamento che poggia su tre gambe.La prima: partnership transatlantica selettiva. La seconda: politica industriale comune sul da farsi e non su ciò che già esiste. La terza: Mediterraneo e Africa. Queste direttrici, prive di contenuti da implementare e senza una matura visione comune delle risorse da impiegare, evidentemente tendono ad affievolirsi.Esiste un problema con il «Next Generation Eu», per cui l’Unione si è indebitata per oltre 700 miliardi per intervenire sulle conseguenze della pandemia, che poggia su un fondamento legale abbastanza debole, e cioè sull’articolo 311 del Trattato che prevede l’assistenza agli Stati che si trovano ad affrontare situazioni eccezionali al di fuori del loro controllo.I giuristi hanno prodotto studi che documentano come circostanze eccezionali, ripetendosi nel tempo, possono «normalizzare» le situazioni e, dunque, rendono inadeguato il suddetto un articolo del Trattato, rendendo necessaria una sua modifica su come si decide con riguardo alle risorse proprie. Queste che sembrano «technicalities» hanno, in realtà, un forte rilievo politico.Per concludere, occorrerebbe che qualcuno in Europa si mettesse alla testa di un processo fortemente integrativo, motivato da necessità reali e non da astratta ideologia europeista. Difficilmente si potrà realizzare in seno al Consiglio europeo, dove i 27 Stati percorrono ciascuno storie diverse.Bisognerà allora fare appello ad una storia comune che è la storia di un’umanità che sta andando verso la fine dei suoi giorni su questo pianeta e che intanto perde tempo in divisioni inutili ed addirittura in guerre che portano nella direzione opposta.Un’umanità che ha un bisogno tremendo di cooperazione e che almeno a livello globale dovrebbe riuscire a seguire le parole del Segretario al Tesoro americano Janet Yellen, le quali suonano come un monito per l’intero Occidente: «Ci stiamo dividendo, ma almeno la “globalization among friends” rimanga».Di fronte a questo nuovo ed essenziale bisogno del mondo ho dei seri dubbi, pensando alle generazioni che conosco, perché la maggior parte di questi ministri, salvo la prima ministra finlandese, di quello che accadrà nel 50 o 60 non gliene importa fondamentalmente nulla e, tuttavia, confido in particolare su chi si trova oggi tra i 20 ed i 30 anni.Le nuove generazioni ci saranno ed è per loro che va preparato un mondo vivibile ed il grande detto «nessuno si salverà da solo» mai si applica come in questo caso.Per tale ragione, mi interessa che assimiliate voi giovani questo bisogno di non disperdersi, di non frammentarsi al di là di quanto già sciaguratamente siamo divisi e di dare un forte scossone all’Europa.Confesso che in questo momento confido di più in Greta che in altre donne e mi auguro che sappia imporsi quanto basta, affinché ci sia una sterzata verso una politica comune troppo pigra per essere all’altezza di ciò che è necessario per affrontare le sfide epocali. —