la Repubblica, 20 febbraio 2023
Intervista a Isabel Allende
Isabel Allende, cugina di Salvador Allende – che chiamava “zio” – e scrittrice di fama mondiale, ha raccolto nella casa di Sausalito, in California, le memorie della sua famiglia, in gran parte distrutte dal colpo di Stato dell’11 settembre 1973, col Presidente Allende che ha scelto di resistere fino alla morte.
Cinquant’anni dopo racconta quella scelta e il suo ricordo del golpe.
Il Presidente: quando l’ha visto l’ultima volta?
«Un mese prima del colpo di Stato. Il mio patrigno era ambasciatore in Argentina e tornava spesso in Cile per riferire direttamente al Presidente. Fui invitata con lui a un pranzo a casa di Allende. Quella fu l’ultima volta che lo vidi vivo».
Di che cosa avete parlato in quest’ultimo pranzo?
«Le vite di Allende, di sua moglie e delle sue figlie giravano attorno alla politica e dunque fu un pranzo molto politico. Io ascoltavo. Si discuteva della terribile crisi economica, politica e sociale che infuriava in Cile. Allende pensava a un plebiscito, voleva che il popolo decidesse se il governo doveva continuare o no».
Secondo lei il Presidente temeva la possibilità di un golpe?
«Si parlava già di golpe, anche se il Cile aveva una lunghissima tradizione democratica. Ma i giornali di destra e l’opposizione incitavano le forze armate ad agire, lanciavano piume dentro l’accademia militare chiamando “polli” i soldati, perché non intervenivano. Quindi sentivamo nell’aria qualcosa di golpista, anche se in realtà non sapevamo cosa fosse, perché non avevamo mai provato nulla del genere».
Secondo lei il Presidente aveva già previsto di non arrendersi ai golpisti che – come disse poi – “hanno la forza ma non la ragione”?
«In quel pranzo lui fu molto chiaro: “Non lascerò la presidenza fino a che il mio mandato non sia finito o io sia morto”. Fu una dichiarazione solenne: all’improvviso, in questa riunione di famiglia, sembrava chelui stesse parlando per la storia».
Chi era in quel momento Salvador Allende? Nei suoi libri lei lo descrive come un uomo robusto con gli occhi astuti, amante della bella vita, delle belle donne, vanitoso ma non frivolo, medico dal grande carisma. È il suo ritratto questo?
«È così che lo ricordo. Aveva anche un forte senso dell’umorismo, si prendeva in giro da solo. Molto veloce nelle risposte, dormiva poche ore, studiava sempre e aveva un gran senso della lealtà. Fu un’enorme sorpresa per lui essere tradito in quel modo».
Il Presidente aveva promosso Pinochet soltanto 19 giorni prima del golpe: quindi non pensava che il generale avrebbe potuto essere a capo dei golpisti?
«No. Si fidava molto di lui ed è per
questo che lo volle a capo delle forze armate».
Nei suoi romanzi lei descrive il giorno della vittoria di Allende nel 1970 con la borghesia nella città alta che chiude le persiane delle case e sbarra le porte, per paura dei lavoratori che scendono in strada cantando col pugno chiuso dopo aver ripetuto in tutta la campagna elettorale “tanto vinceranno sempre gli stessi”. Non ve lo aspettavate, dopo che Allende era stato sconfitto quattro volte?
«Nessuno se lo aspettava, nemmeno lo “zio”. Vinse di stretto margine, col 38 per cento dei voti. Ma per il popolo fu una notte di festa, con la gente che ballava in strada per la vittoria. Ero là, e mi ricordo la sensazione che qualcosa di straordinario fosse successo. Invece i parenti della mia famiglia materna erano conservatorie quindi rimasero inorriditi e spaventati, convinti che il popolo sarebbe venuto a distruggere le loro case e a ucciderli. Naturalmente non avvenne nulla del genere».
Lei ha detto che quelli sono stati gli anni più belli che ha conosciuto.
Com’era il Cile con Allende presidente?
«È stato un periodo bellissimo nella mia vita. Ero giornalista, amavo il mio lavoro, avevo due bambini piccoli, ero innamorata di mio marito ed ero giovane, il mondo e il futuro mi aspettavano. Sentivo di appartenere a qualcosa di importante. Questo era il mio Paese, ed io potevo bussare a qualsiasi porta e le persone mi avrebbero aperto. Era straordinario.
Una sensazione meravigliosa per un tempo troppo breve».
Lei ricorda l’interesse che suscitò anche in Europa questo esperimento cileno, con un governo socialista in un sistema democratico?
«Sì, era una cosa nuova per il Sudamerica. Governi socialisti eletti democraticamente erano esperienze limitate all’Europa, perché gli Stati Uniti non avrebbero mai permesso qualcosa di simile da noi, col rischio di un contagio in tutta l’America Latina».
Lei conosce una frase di Henry Kissinger, “Non si può stare a guardare un Paese che diventa comunista per l’incoscienza del suo popolo e non fare qualcosa per aiutarlo”. L’America è stata decisiva contro Allende?
«Dopo la rivoluzione cubana del 1959, ci furono movimenti di guerriglia in molti Paesi latinoamericani. In Cile avevamo un gruppo molto piccolo di estrema sinistra, senza vere guerriglie. Ma per gli Stati Uniti l’America Latina è un pacco unico, e non avrebbero mai lasciato crescere un’altra Cuba nel continente. Il Cile era un esperimento che gli Stati Uniti non potevano lasciar funzionare. La Cia aiutò a sabotare l’esperimento Allende e favorì il golpe».
In realtà, nella “Casa degli spiriti”, un leader conservatore dice che in America Latina il marxismo non ha chance, perché non contempla il lato magico delle cose.
È così?
«L’ho scritto, ma non so se è esattamente vero. Certo, se si guarda la storia dell’America Latina, si vede quanto sia folle, sin dai tempi della Conquista. Quando iconquistadoresvennero in America Latina sognavano la fonte dell’eterna giovinezza, cercavano città fatte d’oro, con le porte di smeraldo e rubino. Avevano già un’idea mitologica di questo mondo, e quel senso di vivere in una terra magica e fantastica ha sempre influenzato la politica».
Lei dice che nel ‘73 il popolo era stanco: sentiva crescere una reazione di destra?
«Ci fu una campagna di terrore fin dall’inizio, per convincere la popolazione che il governo di sinistra in Cile sarebbe stato catastrofico, e avrebbe portato i bambini in Russia, neigulag.I borghesi ci credevano, quindi ovviamente erano terrorizzati».
Il guerrigliero Miguel, nel suo romanzo, parlando del golpe dice che si pensa sempre che queste cose succedano altrove, finché non succedono nel tuo Paese. È così?
«Sì, anch’io alzavo le spalle. Finché successe. E allora capii che può succedere ancora, sempre, da qualsiasi parte».
Lei dov’era il mattino del golpe, l’11 settembre?«Stavo andando in ufficio con la mia piccola macchina e mi accorsi che le strade erano vuote. Poi cominciarono a passare i camion militari e quando arrivai al lavoro trovai le porte chiuse. Il portiere mi disse subito: “Vai a casa, è un golpe militare, accendi la radio”.
Stava ascoltando il discorso di Allende: e stava piangendo. Dalle finestre vedemmo gli aerei che bombardavano il palazzo, e il fumo che saliva. Non potevamo crederci: la nostra aeronautica stava bombardando il palazzo simbolo della democrazia nel nostro Paese».
Sono le 9 e 15 dell’11 settembre.
Le forze armate circondano il palazzo presidenziale, lo bombardano, in quel momento il Presidente Allende fa alla radio il suo ultimo discorso al Paese. Lo ricorda? “Lavoratori del Cile, vi parla il presidente della Repubblica dalla Moneda. Sicuramente questa sarà l’ultima opportunità per rivolgermi a voi. Siamo in presenza di un colpo di Stato. Le mie parole siano un castigo morale per coloro che hanno tradito il giuramento. Io non rinuncerò, pagherò con la vita la lealtà al popolo. Hanno la forza, ma la storia è nostra, e la fanno i popoli”. Che effetto le fa risentire oggi la voce di Allende?
«Mi riporta tutto il dolore di quel giorno, la paura e anche la coscienzache in quel momento la mia vita fu deviata, tutto cambiò per me. Ma non lo sapevo, non potevo saperlo allora, lo so adesso se guardo indietro…».
Lei si è commossa, cinquant’anni dopo.
«Ogni volta penso cosa poteva provare Allende in quelle ore. Si può a malapena sentire la sua voce perché c’è così tanto rumore, e fumo e fiamme e proiettili, con gli aerei che passano. In mezzo a tutto questo, lui deve aver capito che a quel punto doveva agire come un eroe, per la storia. La sua vita non aveva più un significato per lui: solo questo. Era un uomo molto coraggioso, davvero molto».
Mentre ascoltava queste parole, allora, riusciva a capire cosa stava capitando nella stanza di Allende al secondo piano della Moneda, la confusione, i carrarmati che sparavano dalla strada, le urla della sua guardia armata?
«No. Non sapevamo nulla. Potevamo immaginare, e ho immaginato che fosse terribile, ho sentito la paura. Era una guerra».
Il Presidente resiste per sei ore, poi capisce che la sconfitta è inevitabile, vuole rimanere solo. Fa accompagnare fuori dal palazzo le figlie, ordina ai suoi amici di uscire, stringe la mano a tutti, e infine compie la sua scelta. PatricioGuijón, il suo medico, rientra nella stanza per prendere la maschera antigas e vede che il presidente imbraccia il fucile, se lo punta alla testa e spara, crollando sul divano che si copre di sangue. Sono le 2 e 15, l’ora della scelta. Come spiega quel gesto?
«Allende sapeva di avere un ruolo storico: rappresentava qualcosa, era stato eletto dal popolo. Non poteva andare in esilio come rifugiato, mandato dall’esercito golpista. E non doveva lasciarsi umiliare, torturare e uccidere dalle forze armate infedeli.
Lui era il Presidente. Aveva un grande senso dell’onore di quella carica. Quindi penso che a quel punto per lui fosse molto chiaro che doveva morire».
Il senso estremo dello Stato?
«Sì. E il rispetto per la scelta che il popolo aveva compiuto portandolo alla Moneda».
Secondo alcuni racconti Salvador Allende non poteva salvare il Cile ma forse poteva salvare se stesso.
La scelta di morire ha un significato più politico o morale?
«Penso entrambi. La sua scelta è un messaggio politico molto chiaro, e moralmente è uno schiaffo in faccia a coloro che lo tradirono».
Ha mai dubitato di questo racconto del suicidio?
«Sì, per molti anni. La maggior parte delle persone non credeva che si fosse suicidato, circolava addirittura il nome del soldato che lo avrebbe ucciso. Ma molti anni dopo un medico mio amico vide il corpo, mi chiamò e disse: “Sì, Isabel, è stato un suicidio”».
Lei ricorda i funerali di Neruda con la folla che invocava il compagno Presidente?
«Ero là, pochi giorni dopo il golpe.
Camminammo fino al cimitero tra due file di soldati armati ed io mi avvicinai il più possibile all’ambasciatore della Svezia perché pensai che a lui non avrebbero mai sparato. Sentivo che poteva succedere qualsiasi cosa, ricordo le persone che urlavano “Pablo Neruda, presente”. E poi qualcuno, un lavoratore di uno degli edifici là fuori, gridò “Compañero Presidente…” E l’urlo della folla rispose: “Presente”.
Così il funerale di Neruda divenne anche la sepoltura del Presidente, per il quale non ci fu funerale».
Cosa voleva dire per lei chiamarsi Allende in quei giorni?
«Non era una buona cosa, in particolare nel quartiere dove vivevo. Dopo il golpe la maggior parte della famiglia Allende se ne andò immediatamente, il governo messicano mandò un aeroplano a salvare i parenti e i suoi collaboratori più stretti».
Lei in quei giorni prende una decisione che oggi, cinquant’anni dopo, pare difficile da capire: decide di rimanere in Cile. Perché?
«Perché non sapevo. Non sapevo prima di tutto cosa stesse succedendo, quanto fosse grave la situazione, e che sarebbe durata 17 anni. Pensavo che tutto questo fosse un terribile incidente storico, ma che i soldati sarebbero tornati nelle loro caserme e ci sarebbero state delle nuove elezioni e in qualche settimana, forse qualche mese, avremmo avuto di nuovo la democrazia. Un golpe non poteva durare».
Si scopriranno anni dopo iracconti delle deportazioni negli stadi, le persone incappucciate, le delazioni, le torture. Ma in quel momento che cosa si sapeva?
«Molto poco. Ero giornalista e quindi sapevo più di molte persone, ma era comunque troppo poco, perché tutto era censurato. In televisione si vedeva solo quello che voleva il potere. C’erano voci, ovviamente, che parlavano di persone arrestate per strada e buttate nei camion, di corpi che galleggiavano nel fiume Mapocho. Sapevamo che le persone sparivano, venivano arrestate e mai rilasciate. Ma c’è voluto tempo perché la maggior parte di noi realizzasse ciò che davvero stava accadendo. E per 17 anni comunque una parte della popolazione non voleva credere alla realtà. La mente umana può negare quello che non vuole sapere».
Ha provato a partecipare alla resistenza contro il golpe?
«Non esattamente. Ho soccorso persone perseguitate, ho nascosto fuggitivi in casa mia, ho aiutato ricercati a raggiungere le ambasciate per trovare asilo. Mi stavo mettendo nei guai senza immaginare le conseguenze. Quando capii cosa poteva succedere a me e alla mia famiglia, dovetti andarmene. Era troppo rischioso per tutti».
È vero che lei scoprì che un suo
amico in realtà lavorava per i servizi segreti?
«Sì, e fu uno dei fattori che mi forzarono a prendere una decisione, perché lui sapeva molto su di me e su quel che facevo. Me ne andai per prima, poi mio marito scoprì che ero in una lista nera e quindi prese i bambini e mi raggiunse in Venezuela. Sempre con l’idea che saremmo tornati».
La scelta di partire è stata la scelta di continuare a vivere?
«Sono passati anni e ho potuto finalmente spiegare prima a mia figlia e poi a mio figlio perché avevamo dovuto andarcene. Loro erano bambini piccoli, allora, non potevano capire perché dovevano partire lasciando i nonni, la scuola, gli amici, la casa, i loro animali, tutto. La verità è che avevo paura. Temevo per la mia vita. Ma avevo soprattutto paura di essere torturata. Questo lo trovavo terrificante».
Successivamente lei decide di ricordare scrivendo, con un libro, “La casa degli spiriti”, che parte dai suoi nonni e arriva fino ai giorni del golpe. È stato un modo di esorcizzare il trauma che ha vissuto?
«Penso che “La casa degli spiriti” sia un esercizio di nostalgia. Stavo cercando di recuperare il mondo che avevo perso, il mio Paese. Mio nonno, la mia vita, il mio lavoro, i miei amici.
Tutto quello che un rifugiato perde quando lascia il suo Paese. Col tempo quel libro mi ha aiutata a capire».
Alla radio Salvador Allende assicurò che un giorno l’uomo libero avrebbe ricominciato a camminare nelle strade del Cile. Il Presidente pensava che il suo sacrificio non sarebbe stato inutile.
Ha avuto ragione?
«Sì.Io penso che Allende cercòdi fare in Cilequalcosa che avveniva troppo presto, storicamente, per il nostro Paese.Non eravamo pronti,l’America Latinanon era pronta, e non loera il mondodiviso nella guerra fredda, con noicheeravamoametà traidue campi americanoe sovietico. Quindinon potevafunzionareinquel tempo.Ma puòavere successoadesso, conil governo di sinistra del presidente Gabriel Boric, cheè un ammiratoredi Allende».
Lei ha detto che ha conosciuto molto bene la paura, l’avvertiva coi sensi, era come sentirsi il metallo in bocca. Oggi, cinquant’anni dopo, sente ancora quel sapore?
«Non così forte. Ho ancora incubi.
Quando guardo il mondo, quando vedo cosa sta succedendo in questo Paese, penso a quello che accadde in Cile e capisco che può succedere di nuovo. Da qualsiasi parte. È una possibilità, e ciò mi spaventa. Ma quel senso di estrema paura che provavo in Cile, quando avevo uno sfogo su tutta la pelle, non riuscivo a dormire di notte e non potevo mangiare, quello non l’ho più provato».
Le voglio chiedere un’ultima cosa. Lasciando il Paese, lei si è portata via in una scatola una manciata di terra del suo giardino. È terra del Cile, terra del golpe, di Salvador Allende, terra cilena del 1973. Le domando, oggi che lei vive qui negli Stati Uniti, a Sausalito, quella terra ce l’ha ancora?
«La tengo dentro. Ora la porto con me, nei miei libri. È là che è la mia terra».