Corriere della Sera, 20 febbraio 2023
Incendio al Reichstag. Un libro riapre il caso
Quando in un freddo mattino di gennaio Martin van der Lubbe vide il patibolo, eretto nel cortile del Tribunale di Lipsia, un conato di rabbia lo colse. Cercò di svincolarsi dalle guardie, prese a insultare magistrati e membri del governo venuti ad assistere alla sua esecuzione e lanciò un grido disperato: «E gli altri?». A chi si riferiva?
Erano passati 317 giorni da quel 27 febbraio 1933, quando il radicale di sinistra olandese, appena 24 anni, era stato arrestato sul luogo del misfatto e aveva confessato immediatamente. Era stato lui, mezz’ora prima, ad aver appiccato l’incendio: il Reichstag, il Parlamento tedesco, era ancora un immenso braciere.
Fu il rogo del secolo. Adolf Hitler era diventato cancelliere il 30 gennaio, nominato dal presidente Paul von Hindenburg nel pieno rispetto della Costituzione di Weimar. E sulla carta le libertà civili esistevano ancora, anche se già accadevano cose inquietanti, come la chiusura dei giornali di sinistra, la purga dei funzionari «inaffidabili» nelle amministrazioni o la legalizzazione delle violenze delle milizie naziste SA, SS e Stahlhelm. La fragile Repubblica nata dalla sconfitta nella Prima guerra mondiale rimaneva a suo modo in piedi.
Ma in quei momenti fatali, il Reichstagsbrand cambiò il corso della storia. Con le fiamme che ancora divampavano, iniziò quello che Sebastian Haffner avrebbe definito il «terrore legale di Stato». «Non ci sarà pietà – disse Hitler, accorso sulla scena insieme a Goebbels – chi ci ostacola sarà abbattuto, ogni funzionario comunista va fucilato sul posto, i deputati comunisti devono essere impiccati questa notte stessa». Così fu. Migliaia di politici e militanti dell’opposizione non solo comunista, intellettuali e giornalisti vennero presi nella stessa notte dai loro letti, arrestati, deportati, rinchiusi in improvvisati campi di concentramento, torturati o semplicemente uccisi. Le liste le aveva già preparate da tempo il ministro degli Interni della Prussia, Hermann Göring. Il giorno dopo, sui muri di Berlino apparve la famosa «Ordinanza sull’incendio del Reichstag», che sospendeva in un colpo solo tutte le libertà fondamentali, rafforzava le misure penali, liquidava il federalismo. Sarebbe rimasta in vigore fino alla caduta della dittatura hitleriana. Di fatto, le fiamme appiccate da van der Lubbe offrirono su un piatto d’argento a Hitler e alla sua cricca criminale l’occasione per cancellare in poche ore ciò che rimaneva della Repubblica di Weimar.
Novant’anni dopo, la tesi che il giovane olandese, fra l’altro affetto da una grave miopia, abbia fatto tutto da solo, riuscendo a entrare e a ridurre in macerie in pochi minuti un edificio massiccio e immenso come il Reichstag, è ancora quella prevalente. A consolidarla, nel tempo, furono una celebre inchiesta a puntate di «Der Spiegel» pubblicata alla fine degli Anni 60 e il parere di storici autorevoli, da Hans Mommsen a Ian Kershaw. Ma in verità il dilemma se l’estremista olandese abbia agito in piena autonomia o abbia avuto dei complici non è mai stato sciolto. Varie tesi si sono contrapposte. Da quella cara ai nazisti di un complotto comunista, smentito perfino dal processo che mandò assolti gli altri coimputati, fra i quali il futuro premier bulgaro Georgi Dimitrov, a quella di un van der Lubbe «manovrato» dagli stessi nazionalsocialisti, che lo avrebbero segretamente anche aiutato.
A riaccendere la controversia è ora un libro di Uwe Soukup, studioso che per anni ha fatto ricerche sull’incendio, le cui clamorose conclusioni vengono anticipate in un lungo articolo appena pubblicato su «Die Zeit». In Die Brandstiftung, pubblicato da Heyne, Soukup ammette di non poter dimostrare e provare una tesi alternativa, ma mette insieme una serie impressionante di indizi, che da un lato smascherano contraddizioni e debolezze strutturali dello scenario del colpevole unico, e dall’altro puntano il dito verso il coinvolgimento dei nazisti, o meglio di una parte di essi nella preparazione ed esecuzione dell’attentato. Uno di questi viene proprio da Hermann Göring, che nel 1946, in una conversazione con il procuratore del Tribunale di Norimberga, Robert Kempner, disse che probabilmente le SA di Berlino, guidate da Karl Ernst, erano dietro l’incendio.
Già, le SA, la milizia ribelle che mal sopportava il «corso della legalità» di Hitler e che nel 1934 avrebbe pagato il dissenso con il massacro dei suoi vertici. Un’ipotesi, quella di Göring, corroborata dalla recente scoperta della dichiarazione giurata di Hans Martin Lennings, uomo delle camicie brune, che nel 1955 a un notaio di Hannover disse di aver ricevuto dalle SA l’ordine di portare van der Lubbe al Reichstag la sera del 27 febbraio 1933. Un altro collegamento con le SA è quello di Hans-George Gewehr, grande esperto di liquidi infiammabili, considerato il capo dei vigili del fuoco della milizia nazista. Detto anche Pistolen-Heini, secondo diversi testimoni in una notte di libagioni si era vantato di aver preso parte al Reichstagsbrand.
Ancora più importante è la testimonianza resa a Soukup da Ruth Weiss, scrittrice novantottenne, vedova di Hans Weiss, giornalista del «Berliner Tageblatt», molto più anziano di lei. Le aveva raccontato che la sera del 27 febbraio si era recato al Reichstag insieme a un collega del politico, che frequentava regolarmente il Parlamento e conosceva bene l’edificio. Erano riusciti ad arrivare a un ingresso laterale, quando videro un gruppo di giovani in loden furtivamente uscire da un grande cancello, salire su un camion in attesa e partire. Quanto entrarono nell’edificio, Weiss e il suo collega sentirono un forte odore di benzina.
Altri particolari emergono, come le targhette di legno e cartone con i nomi dei deputati del Reichstag, oltre mille pezzi normalmente custoditi in un baule dietro il leggio degli oratori, che furono trovati ridotti in cenere in mezzo all’emiciclo: chi li aveva spostati? Non certo van der Lubbe, che non poteva sapere dove fossero e fece tutto in poco tempo. E com’era riuscito l’olandese a scalare un cornicione di 8 metri per entrare, come dichiarò al processo? E perché non venne tenuto in alcun conto un testimone che disse di aver visto due individui rompere a colpi di mazza alcune finestre, che avevano un vetro spesso 8 millimetri?
Da ultimo, ricorda Soukup, l’atteggiamento assente e apatico di van der Lubbe al processo, che alimentò il sospetto che fosse stato drogato. Un sospetto che ha già portato a una decisione clamorosa: alla fine di gennaio, la tomba di van der Lubbe nel cimitero di Lipsia è stata infatti aperta e i suoi resti dissotterrati per essere esaminati da un’equipe di medicina forense. «Neanche queste indagini però risolveranno il mistero di quanto accadde il 27 febbraio 1933», ammette Soukup, ma «riprendere la discussione è inevitabile». E conclude: «Le circostanze esatte della morte della prima democrazia tedesca non possono lasciarci in pace nemmeno 90 anni dopo».