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 2023  febbraio 20 Lunedì calendario

Ritratto di Tarcisio Burgnich

Roccia è il nome che gli assegnò, a futura memoria, il capitano Armando Picchi. Era il 6 ottobre 1963, Spal-Inter, quando l’ala ferrarese Novelli andò a sbattere contro un avversario nerazzurro e finì per rimbalzare a qualche metro di distanza, mentre l’altro proseguì imperturbabile la sua azione. L’altro era Tarcisio Burgnich e Armando, che aveva giocato nella Spal, andò a consolare il suo vecchio compagno di squadra rotolato sull’erba: «Per forza, quello è una roccia».
Quando si parla di Burgnich, arcigno, coriaceo, implacabile sono gli aggettivi più frequenti, qualcuno lo definisce una colonna, la Colonna della difesa di Helenio Herrera, che lo volle a Milano dopo una stagione così così alla Juventus e una stagione piena al Palermo. Gianni Brera, dopo il 4-3 di Città del Messico contro la Germania, lo chiamò l’immenso, l’eroe della giornata, e gli assegnò in pagella un «9 più come minimo», non tanto per il gol del 2-2, già in sé sufficiente a iscriverlo nella leggenda dei santi difensori: quel voto era un premio per «aver tenuto l’area da grandissimo gladiatore». E se lo diceva il Gioânn fu Carlo…
La Roccia, la Colonna, l’Eroe, il Gladiatore, l’Immenso. Eppure, lui riteneva che l’essere umile fosse la qualità indispensabile del difensore. Del resto, se a vederlo aggredire Gigi Riva sembrava un colosso, la sua statura non superava il metro e 75. Certo, di marmo. E con tutto quel marmo nei muscoli, riusciva anche a volare. Come il 9 aprile 1967, contro il Bologna. Gino Palumbo, che sul Corriere faceva le cronache nella prima metà al passato remoto e nella seconda metà al presente, registrò, nel fango di San Siro, uno scontro tra i due «ringhiosi difensori» Furlanis e Burgnich, da cui, manco a dirlo, «ebbe la peggio il ginocchio del terzino rossoblù, che venne trasportato fuori dal campo in barella». Poi descrive (al presente) il gol del 2-1 a sei minuti dalla fine. C’è una punizione, «protesta Haller, batte Corso, Vavassori – chissà perché – resta fermo tra i pali, s’eleva Burgnich, il colpo di testa è secco, è gol».
Perché quel colpo di testa della Roccia friulana sarebbe rimasto inciso nella roccia friabile della mia memoria interista? Avevo dieci anni, quel pomeriggio pioveva anche a Lugano, e avrei saputo dopo, facendo qualche calcolo di cronologia, che Burgnich s’elevò sul fango di San Siro proprio nei minuti in cui anche mio fratello Claudio, a cinque anni, si elevava per sempre, da due mesi malato di leucemia. Fu quasi una coincidenza perfetta, minuto più minuto meno. Claudio era interista come me e s’elevò mentre a San Siro in 40 mila circa, 13 mila abbonati e 25.186 paganti, esultavano. Quella contemporaneità sfacciata mi ha sempre impressionato. È il calcio, bellezza, direbbe Orson Welles. O meglio, è la vita, bellezza. Perché non c’è retorica nel dire che il calcio, con le sue insensatezze, a volte fa capire meglio la vita (e ovviamente la morte).
Ora, ha fatto male al cuore, dopo la morte di Pelè, vederlo e rivederlo nel suo momento peggiore, l’Immenso (lo era stato fino alla semifinale), quel giorno dell’estate 1970 in cui contro il Brasile non riuscì a elevarsi: vedere il Gladiatore così storto e sbilenco a braccia larghe farsi sovrastare dal divo O’Rey. Brera, «finita la bella festa», non salvò neppure il nostro santo difensore (5,5), riconoscendogli di essersi «arrangiato su questo autentico fenomeno del football ricorrendo a falli non sleali, ma comunque contrari al regolamento». Calcando ingiustamente il tasto dello sberleffo, il Gioânn Brera avrebbe poi scritto che in quella posa sgraziata Burgnich «diede la strana sensazione di essere appeso a un ramo di mango».
Sulle figurine
Mi ritrovo tra le mani una pagina del Corriere d’Informazione, il giornale pomeridiano del Corriere della Sera, datata lunedì 22 marzo 1976: è occupata da un’intervista a Tarcisio Burgnich, che allora giocava per il Napoli, avendo lasciato l’Inter dopo una dozzina d’anni di vittorie. Nella pagina, intitolata «La Nazionale? Una squadra di brocchi» (titolo che a leggere l’intervista risulta invero un po’ forzato), l’ex terzino passato al ruolo di libero rispondeva alle domande telefoniche dei lettori. Ma è la grande fotografia che colpisce: cornetta all’orecchio, insolitamente incravattato e sorridente, mentre in genere le figurine Panini lo riprendono piuttosto corrucciato sin da giovanissimo.
Come una poesia
È facile riconoscere la famosa formazione dell’Inter europea e mondiale: Sarti-Burgnich -Facchetti...la più recitata a memoria della storia
Unica variante, in anni più tardi, le basette appena allungate e allargate alla base, malcelata concessione ai coetanei ribelli, ma il taglio è sempre lo stesso, severo e con riga a lato, simile a quello del suo alter ego di sinistra, Giacinto Facchetti, terzino fluidificante, si diceva allora, con licenza di avanzare, mentre Tarcisio era tenuto a «presidiare» la difesa e a «francobollare» l’attaccante più pericoloso. Salvo escursioni folli fuori dall’area: 6 gol in 467 partite nell’Inter.
Giuliano, Tarcisio, Giacinto, Gianfranco (o Carlo), Aristide, Armando, Jair (o Angelo), Sandro, Aurelio (o Renato o Beniamino), Luisito, Mario… Non solo perché Jair è sempre Jair, anche attraverso i nomi di battesimo è facile riconoscere la famosa formazione dell’Inter europea e mondiale, Sarti Burgnich Facchetti…, la più recitata a memoria della storia del calcio italiano forse perché suona con lo stesso ritmo della canzone di Petrarca più studiata a scuola, «Chiare, fresche e dolci acque…», una metrica quasi naturale per gli italiani, settenario-settenario-endecasillabo. Ma pensate chiamare oggi Tarcisio il proprio figlio, o Giacinto, o Aristide… Nomi-classicità greca e latina, nomi magniloquenti degni del regime.
C’erano poi i nomi più comuni ed eterni: Mario, Carlo, Alessandro, ma già Sandrino, il diminutivo con cui Mazzola veniva chiamato da Tarcisio, gli aggiunge, sentito oggi, una patina di ruggine.
E Burgnich, poi. Che i dizionari onomastici segnalano come un cognome rarissimo, dodicesimo persino a Ruda, il minuscolo paese friulano, a pochi chilometri da Aquileia, dove il 25 aprile 1939 nacque Tarcisio, il cui padre, un operaio della Snia che aveva fatto la Grande Guerra nelle file dell’esercito austriaco, si chiamava nientemeno che Ermenegildo, come un principe visigoto. Fatto sta che Ruda, come Burgnich, come Tarcisio, come Ermenegildo hanno consonanti e vocali che evocano la durezza delle rocce, appunto. «Arcignità» naturale.
Amava i silenzi come altri friulani famosi (Bearzot, Zoff…), e sentirlo parlare in televisione era raro. «Giocando terzino qualche volatina me la faccio, e mi porta divertimento», disse in un’intervista Rai al giornalista che gli chiedeva se preferisse per caso giocare centrale di difesa, il ruolo che avrebbe coperto in tarda età anche in Nazionale. Quel diminutivo, «volatina», sulla bocca dell’Arcigno suonava un po’ lezioso, ma non stupisce che un combattente come lui continuasse a cercare, nella fatica di togliere aria e luce al centravanti avversario, lo stesso divertimento che trovava da ragazzo pedalando verso il campetto del paese.
Il soprannome
A darglielo fu Picchi, il capitano, vedendolo fermare l’ala ferrarese Novelli: quest’ultimo, nell’impatto, rimbalzò a metri di distanza
Da allenatore ebbe un momento magico nel 1980 con il Catanzaro di Palanca, l’anno dopo fece esordire nel Bologna il sedicenne Roberto Mancini. Spiegò che nei suoi giocatori cercava la «consistenza»: «Sarà un mio vecchio pallino ma io credo nei calciatori combattivi, in quelli che danno un peso alla squadra».
Morì il 26 maggio 2021, esattamente cinquant’anni dopo l’amico Armando Picchi, colui che l’aveva battezzato a futura memoria. La Roccia si elevò così per l’ultima volta a Forte dei Marmi, toponimo-destino particolarmente adatto alla sua tempra forte e marmorea. Il francobollatore di attaccanti fu francobollato solo dalla malattia.