il venerdì, 17 febbraio 2023
Intervista a Vera Politkovskaja - su "Una madre. La vita e la passione per la verità di Anna Politkovskaja" di Vera Politkovskaja con Sara Giudice (Rizzoli)
Mosca. Di quel sabato pomeriggio, 7 ottobre 2006, Vera ricorda tutto come se fosse ieri: la colazione insieme a mezzogiorno inoltrato, il dono inaspettato di un rotolo di banconote da spendere per la nipotina che portava in grembo, l’ultima telefonata, i tanti squilli senza risposta fino alla chiamata del fratello Ilja, con quel tono di voce che non gli aveva mai sentito prima, né mai più gli sentirà, mentre si fa messaggero della più terribile delle notizie: "Hanno ucciso mamma".
Non importa quanto si fosse preparata, quante volte avesse presagito quel vuoto. A perdere una madre in quel modo non ci si rassegna. Neppure se si chiama Anna Politkovskaja, la giornalista più scomoda di Russia, un Paese dove chi dice la verità paga: con la libertà o con o la vita. "È un errore, pensai. C’era stato uno scambio di persona, un terribile equivoco. Era l’unica spiegazione possibile", ricorda oggi Vera nel libro Una madre in uscita il 21 febbraio per Rizzoli. Una biografia che non fa nessuno sconto alla memoria. Nessun intento celebrativo. Soltanto la verità. Vera Politkovskaja lo ha imparato da sua madre. "Una professionista come lei non poteva che essere una persona difficile. Aveva un carattere complicato. Io volevo descriverne tutte le sfaccettature, e finalmente l’ho fatto".
Oggi 43enne, Vera ci parla in videocollegamento dalla località segreta dove ha trovato rifugio lo scorso aprile insieme alla figlia che ha chiamato come la nonna che non ha mai conosciuto: Anna. Nella Russia che, oltre a ogni diritto civile, ha calpestato quello internazionale lanciando una sanguinosa offensiva contro l’Ucraina, per sua figlia chiamarsi come la reporter di Novaja Gazeta diventata suo malgrado martire della libertà d’espressione, era ormai un fardello troppo pesante. "Farai la sua stessa fine", è stata l’ultima minaccia. "La Russia non onora i suoi eroi. È triste, ma è così", commenta Vera, lo stesso caschetto biondo cenere e gli stessi zigomi della madre visti in tanti risvolti di copertina.
Dopo alcuni anni da violinista, lei ha seguito le orme dei genitori finendo col lavorare in una delle poche redazioni russe dove non si doveva vergognare di tradire il mestiere di giornalista. Che cos’altro ha preso da sua madre?
"È stato naturale. Mentre frequentavo il conservatorio avevo iniziato a lavorare come giornalista culturale. Ma è proprio allora che è stata uccisa mia madre. Ero incinta e avevo preso una pausa. Dopo aver partorito, la cultura non mi bastava più. E mi sono buttata nel giornalismo politico e sociale. Cos’altro ho preso da mia madre? Tante, troppe cose. La più importante è l’attitudine verso il lavoro: qualsiasi mestiere tu faccia, devi farlo bene. Non sono ammessi errori, tantomeno fallimenti".
È lo stesso rigore a cui si è attenuta nello scrivere questa biografia?
"Volevo che mia madre venisse ricordata così com’era, che intorno alla sua figura non si creassero miti che non corrispondono alla realtà. Ho saputo che sono in corso le riprese di un film cosiddetto "biografico" intitolato Anna. Madre Russia che sarà pieno di inesattezze sul suo conto. Anch’io, mio fratello e il direttore di Novaja Gazeta, Dmitrij Muratov (Nobel per la pace nel 2021, ndr) veniamo rappresentati in modo deformato. Non mi piace. Vorrei invece che si sapesse la verità su mia madre, per quanto scomoda possa essere".
Di Anna Politkovskaja tutti conoscono le battaglie per la verità e il prezzo che ha pagato. Quello che non sanno, Vera lo ha scritto nella sua biografia. La relazione col marito "esplosiva come un vulcano". L’agenda imposta ai figli bambini anche in vacanza: due ore di violino, le poesie da imparare a memoria, i libri da sottolineare, su alcune pagine tutte le lettere A, su altre le O. La depressione in cui cadeva ogni volta che si lasciava trapassare dalle storie che ascoltava. Il pragmatismo dei discorsi senza lacrime: "Lì trovi i soldi nascosti. In quel cassetto ci sono i documenti importanti. Non si sa mai". I retroscena dei suoi oltre sessanta viaggi in Cecenia come la scelta di vestiti "ampi e senza forme" per mimetizzarsi con la gente del luogo, e scuri per camuffare le macchie. Ci sono anche i ricordi più sereni. I manicaretti che Anna sfornava in cucina. I cani, Martin e Van Gogh. Gli ultimi viaggi insieme. Le carote che aveva piantato in dacia perché Vera mangiasse biologico durante la gravidanza. E quell’immagine della madre cristallizzata, seduta alla scrivania, china sul computer a scrivere una "nota", come chiamava i suoi articoli, con il ticchettare dei tasti come colonna sonora dei giorni e ninna nanna delle notti. "Assente anche quando era presente fisicamente".
Quello che emerge è il ritratto di una donna esigente, con se stessa innanzitutto e di conseguenza con gli altri, familiari e amici compresi. "Sola profondamente sola", emarginata dalle autorità, dai colleghi proni e dagli stessi cittadini comuni che la chiamavano "la pazza di Mosca" perché parlava di crimini efferati. Ma anche circondata da quelle che per lei non erano soltanto "fonti". "Di qualcuno ero gelosa", ammette Vera che però non ha mai provato a dissuadere la madre dal fare il suo lavoro, "non ho mai interferito. Vedevo come si difendeva ogni volta che qualcuno ci provava. Dava sempre la stessa risposta: "Chi se non io?". La domanda restava sospesa e bisognava fermarsi lì. In quei momenti mi mettevo nei suoi panni e capivo che quei tentativi non erano solo inutili, ma sbagliati. Fatta la propria scelta di vita, ciascuno deve poter continuare per la propria strada. Capivo i rischi che correva, ma li accettavo".
E così Anna Politkovskaja continuava a partire, anche quando gli altri restavano fermi. Diceva sempre di scrivere per il futuro. E, a rileggerli oggi, i suoi reportage suonano come profezie inascoltate. L’Ucraina come la Cecenia. Mariupol come Groznyj. Novaja Gazeta come la sua reporter più famosa, zittita dai bossoli della censura. "Il Nobel non ha protetto Muratov così come la fama internazionale non ha protetto mia madre. Il giornalismo libero in Russia non esiste più. Distrutto. Calpestato. Esiste solo la propaganda".
L’Occidente avrebbe dovuto ascoltare di più sua madre? O fare di più davanti alla sua uccisione, e a quella di tanti altri giornalisti e oppositori?
"Non saremmo qui se i Paesi occidentali fossero stati più duri con la Russia quantomeno a partire dal 2014, anno dell’annessione della Crimea. Ma la Storia non conosce il condizionale. Parlarne non ha senso. Viviamo nel presente e dobbiamo farci i conti. Bisogna pensare a cosa fare ora".
Le sanzioni adottate le sembrano efficaci?
"L’obiettivo qual era? Fermare l’aggressione contro l’Ucraina? Beh, non è stato raggiunto. La maggior parte delle sanzioni finora non ha fatto che colpire i russi come me, fuggiti per scampare al clima d’odio e alla repressione. Non possiamo ottenere visti né permessi di lavoro. Non possiamo usare le nostre carte bancarie e accedere ai nostri soldi. In che modo tutto ciò possa influenzare l’andamento delle ostilità, non lo capisco. Se la speranza era istigarci a rovesciare il potere, privandoci di beni e merci, è chiaro che era mal riposta. Anzi trovo bestiale l’idea di volerci convincere a farci manganellare, torturare e imprigionare. L’Occidente ha iniziato a trattarci come gente di serie B. Il nostro passaporto è diventato un marchio d’infamia. Come si può vivere così?".
Sua madre che cosa avrebbe scritto di questo conflitto?
"Come giornalista, sarebbe lì al fronte per raccontarlo. Non ho dubbi. Da cittadina, sarebbe stata scioccata come me. Quando nelle nostre carte d’identità c’era la voce "nazionalità", sulla sua era scritto "ucraina". Mio nonno Stepan era ucraino, mia nonna Raisa per metà. Ma le sue origini non avrebbero aumentato la sua indignazione. Avrebbe protestato a prescindere".
Si chiede mai se il suo sacrificio sia stato vano?
"Il suo sacrificio non è stato inutile. Il problema è che in patria non è stato ancora capito. Spero in un futuro. Anche se sono pessimista. Putin prima o poi se ne andrà, ma non credo che la Russia diventerà un Paese libero e democratico. Ce lo insegna la Storia. Il pericolo che dopo arrivi qualcuno di peggiore è concreto. Verranno tempi torbidi".