il Giornale, 19 febbraio 2023
Come scoppiò la Prima guerra mondiale
I cannoni d’agosto di Barbara W. Tuchman, che ora Neri Pozza ripropone in libreria (traduzione di Ugo Tolomei, pagg. 638, euro 25), è uno di quei libri di storia su cui il tempo è passato sopra senza danno. Quando uscì negli Stati Uniti, all’inizio degli anni Sessanta, il presidente americano John F. Kennedy ne parafrasò il titolo per spiegare come intendeva affrontare la cosiddetta Crisi di Cuba: «Non fornirò materiale per un best seller dal titolo I missili d’ottobre»... Detto in maniera meno sibillina, la lettura di quel saggio, in seguito premiato con il Pulitzer, gli aveva messo davanti la lunga catena di passioni cieche, ambizioni sbagliate, superficialità diplomatiche, che avevano fatto della Prima guerra mondiale un muro contro muro dove, non cedendo nessuno, ci si era alla fine schiantati tutti quanti. Troppo occupate nello stendere piani d’azione che le avrebbero portate a una vittoria sul campo di battaglia, tanto certa quanto raggiungibile in tempi brevissimi, un mese, più o meno, le grandi nazioni non si erano mai preoccupate di prepararne uno di riserva e/o alternativo, come pure si era soliti fare in ogni scuola di guerra degna di questo nome, nonché in ogni governo che avesse a cuore l’interesse nazionale. Una volta innescato il conflitto, il predominio dei vertici militari su quelli politici aveva fatto il resto, e quel mese, più o meno, si era trasformato in una catastrofe durata cinque anni e che avrebbe poi segnato l’intero Novecento. Di tutto questo, l’allora Presidente americano fece tesoro e fece sì che quella crisi non segnasse un punto di non ritorno, garantendo a Kruscev un’accettabile via d’uscita. Barbara W. Tuchman era allora una cinquantenne di ottima famiglia (era nipote per via materna dei Morgenthau), laureata a Harvard, già autrice di un libro, The Zimmermann Telegram, in cui l’ingresso degli Stati Uniti nel Primo conflitto mondiale veniva raccontato con il ritmo di una storia di spionaggio. Non era una storica di professione, ma neppure divulgatrice incline al sensazionalismo romanzesco: sapeva scrivere e conosceva il lavoro d’archivio. Le due cose fanno di I cannoni d’agosto un classico. Alla sua base c’è un’intuizione. Come è noto, negli anni precedenti la Grande guerra aveva fatto sensazione un libro di Norman Angell, intitolato La grande illusione. In esso, in sintesi, si sosteneva che «la guerra era un cattivo affare» le cui conseguenze sarebbero state penose per i vinti come per i vincitori. Troppo forte era l’interdipendenza finanziaria, troppo prevedibili i disastri e le sofferenze perché ragionevolmente la si potesse ritenere concepibile. Tutto ciò, osserva la Tuchman, andava però paradossalmente d’accordo con la teoria del Blitzkrieg, la guerra lampo del maggior teorico militare dell’Ottocento, ovvero von Clausewitz. Insomma, «Il credo dell’ortodossia tedesca era quello della vittoria pronta e decisiva; il credo dell’ortodossia universale era quello dell’impossibilità economica di una guerra lunga»... Da tesi contrapposte si arrivava insomma alla stessa conclusione... Il paradosso successivo è che per quanto i rispettivi capi militari dell’epoca, il tedesco Moltke, il francese Joffre, l’inglese Kitchener avessero invece messo in conto la durata e non la brevità di un conflitto di logoramento, nessuno di loro lo aveva tenuto presente nei rispettivi piani di guerra... Lo stesso anno in cui uscì il libro di Angell, ci furono a Londra i solenni funerali di Edoardo VII e il passaggio della cometa di Halley, avvenimento astronomico considerato tradizionalmente di cattivo augurio: in Inghilterra, per esempio, aveva preannunciato la conquista normanna e nel Giulio Cesare di Shakespeare, notarono i quotidiani inglesi dell’epoca, si potevano trovare in proposito i seguenti versi: «Quando muoiono i mendicanti non si vedono comete / i cieli stessi proclamano col fuoco la morte dei principi»... Consapevolmente o meno, quella morte e quel manifestarsi astrale chiudevano un’epoca. La nuova che si apriva vedeva un complicato gioco di alleanze trasformarsi in una sorta di camicia di Nesso che invece di favorire il lavorio delle diplomazie le inchiodava in uno status quo reso fragile dal fatto che il venir meno di una singola pedina faceva venir giù tutta la scacchiera. La Germania era disposta a lasciare all’Inghilterra la primazia sul mare, ma ne chiedeva in cambio la neutralità qualora sul terreno del Vecchio continente fosse andata allo scontro con la Francia. Fedele all’idea che non ci dovesse essere una potenza egemone sul Vecchio continente e che quella primazia non dovesse essere nemmeno messa in discussione, l’Inghilterra strinse un patto con la Francia che poi entrambe allargarono alla Russia, blindando così la Germania a est come a ovest. Come spesso succede quando tutti si armano nell’idea che così facendo si scongiura la guerra, quest’ultima fece la sua comparsa da un’altra parte. Come scrive la Tuchman, si avverò la profezia di Bismarck, il cancelliere che aveva fatto della Prussia una nazione prima, un impero poi: «Sarà qualche maledetta sciocchezza nei Balcani a farla scoppiare». Ma a ciò, scrive ancora la Tuchman, si accoppiò «la bellicosa leggerezza degli imperi senili», nella fattispecie quello austroungarico, non disposto a concedere alcunché alla Serbia, ma così facendo forzando la mano alla Germania suo alleato e alla Russia suo nemico in quanto alleato della Serbia... All’improvviso, «la guerra premeva a tutte le frontiere. Sgomenti di trovarsi sull’orlo del precipizio, quei capi di Stato che in ultima analisi avrebbero risposto del destino toccato alle loro nazioni, cercavano di tirarsi indietro, ma ormai i piani stabiliti dagli stati maggiori li spingevano avanti senza rimedio». A un ulteriore complicarsi del conflitto, come se ce ne fosse bisogno, diede un notevole contributo l’albagia degli inglesi. Per quanto l’impero ottomano fosse ormai da un secolo «l’ammalato d’Europa», tuttavia, osserva la Tuchman, «non si decideva a morire e continuava a tenere strette nelle sue mani decrepite le chiavi dei suoi enormi possedimenti». Nel 1908, la rivoluzione dei Giovani Turchi aveva se non guarito l’ammalato trovato una cura per non farlo peggiorare, il che aveva suscitato le ire di Francia, Inghilterra e Russia che avrebbero preferito un cadavere da sezionare comodamente fra di loro. Come che sia, lo scoppio della Grande guerra rendeva difficile tanto la sua neutralità, quanto lo scegliere da che parte stare. «La sua posizione geografica all’incrocio delle rotte imperiali britanniche – scrive la Tuchman – le dava in mano una carta di valore inestimabile»: il problema era che Londra «non prendeva più la Turchia sul serio»... Ancora tre anni prima, Winston Churchill, che era solito definirla «scandalosa, decrepita, squattrinata», oltre a rifiutarne le proposte di alleanza, l’aveva ammonita a non alienarsi l’amicizia inglese «ritornando ai sistemi tirannici del vecchio regime, o agendo in modo da turbare lo status quo dell’Inghilterra»... In sostanza, la spocchia britannica contribuì a far percorrere a Istanbul l’altra alternativa. L’alleanza con la Germania significava per Costantinopoli tenere a bada la Russia, ovvero il suo nemico plurisecolare, e per Berlino isolare quest’ultima dai suoi alleati e dalle sue fonti di riferimento. A far pendere definitivamente il piatto dell’alleanza turco-tedesca, fu il sequestro da parte inglese di due unità da guerra turche ordinate nel Regno unito e già pagate dal governo di Costantinopoli. Come riassume la Tuchman, questa specie di bullismo diplomatico significò per la Russia il vedersi chiuso lo sbocco al Mediterraneo e la diminuzione fino quasi allo zero delle esportazioni e delle importazioni. «Il suo isolamento marittimo con tutte le sue conseguenze, l’inutile e sanguinosa tragedia di Gallipoli, la dispersione di forze alleate nelle campagne di Mesopotamia, di Suez e della Palestina, e infine lo sfacelo dell’impero ottomano e la successiva storia del Medio oriente», tutto deriva da quella cieca supponenza britannica sulla reale importanza di Costantinopoli. Ben scritto e ben orchestrato, I cannoni d’agosto ci offre anche uno spaccato di quelle che erano allora le psicologie nazionali. Ci limiteremo, per motivi di spazio e a mo’ di conclusione, a quella tedesca. «Fra ingiustizia e disordine – scriveva Goethe – il tedesco sceglie l’ingiustizia» e, aggiunge la Tuchman, «tranquillizzato solo dalla presenza dell’autorità, il tedesco vede nel civile che si dà alla guerriglia un che di particolarmente sinistro». Tutto ciò comportava automaticamente la Schrecklichkeit, ovvero il terrore come metodo per tenere sotto controllo i territori occupati... La fine è nota.