La Stampa, 19 febbraio 2023
Lidia Ravera parla di vecchiaia
«La vergogna, sentenzia Google, "è un profondo e amaro turbamento interiore che ci assale quando ci rendiamo conto di aver agito o parlato in maniera riprovevole o disonorevole". Che cosa c’è di riprovevole e disonorevole nel non essere più giovani? Eppure è un senso di vergogna quello che ci colpisce quando si parla di età, e noi non siamo in regola». Non siamo in regola, scrive Lidia Ravera in Age Pride (Einaudi), in questa società «crudelmente giovanilista e marcatamente senile», che induce a odiarsi perché si invecchia, a camuffare gli anni, ad arrendersi. «Gli stereotipi ti vorrebbero finita, perché lo stigma colpisce soprattutto le donne, o in obbediente attesa della fine. Ma se vuoi puoi ribellarti - è l’incoraggiamento, rivolto anche a se stessa, della scrittrice -. Se capisci che ogni età è un Paese straniero anche arrampicarti su una parete di ghiaccio ha il suo fascino. Non c’è landa desolata che non meriti una fotografia. Consiglio lo sguardo curioso dei grandi viaggiatori, non la lamentela petulante del turista».
Se Porci con le ali (1976), il suo romanzo d’esordio, era il manifesto di una generazione, lo è anche Age Pride, che Ravera scrive oggi, a 72 anni, raccontando in prima persona la propria battaglia sull’età e parlando soprattutto di donne e alle donne. Un punto di vista che è innanzitutto femminile, e poi diventa universale in un libro che è un invito a vivere appieno la vecchiaia e una requisitoria contro i pregiudizi: «In Italia noi ultra65enni siamo il 23% della popolazione e abbiamo davanti, per la prima volta nella storia, 30 anni tutti da inventare».
La vecchiaia è un fenomeno di massa che stiamo affrontando male, scrive, esortandoci a progettare «una vita che duri tutta la vita e non solo due terzi». Come si fa?
«La puoi progettare e forse anche realizzare (lo scoprirò presto) se riesci a liberarti dal peso mortifero dei luoghi comuni, che ti spinge a disprezzare quello di cui dovresti andare fiera: l’aver vissuto. La vecchiaia è una delle stazioni della vita, se sarà bella o brutta dipende in larga parte da te».
La maggior parte delle donne - scrive, includendosi nel gruppo – «non riesce a non odiarsi da vecchia» perché è ancora troppo fragile nei confronti della perdita della bellezza: «non riesce più a immaginarsi oggetto del desiderio e non ha ancora imparato a immaginarsi soggetto». Il suo invito è quello di usare questa età per «una rivoluzione»: essere libere, vivere da soggetto. Siamo ancora a questo punto?
«Sì, certe rivoluzioni interiori sono profonde e lente. Che cosa si può pretendere da un genere, il genere femminile, che per duemila anni è stato costretto a vestire la livrea dell’oggetto di desiderio? Che se la spolveri via di dosso in pochi anni? Il Terzo Tempo è una buona occasione perché è il tempo della consapevolezza, non hai più bisogno di darti valore specchiandoti nell’altro. Questo ti rende forte, al punto da confessare la tua debolezza: io l’ho fatto in questo libro, ammettendo di pesarmi ogni sera, stupidamente fiera della mia taglia 42, di litigare con le rughe. Non basta essere consapevoli, creative, intelligenti. Se quando eri ragazzina i compagni di scuola classificavano le femmine secondo bellezza, i dannosi effetti collaterali possono condizionare tutta una vita».
Le donne che negli Anni 70 leggevano Noi e il nostro corpo oggi, sottolinea, del corpo provano una «vergogna regressiva, subalterna». La consapevolezza non è servita?
«La consapevolezza ti consente di capire i condizionamenti che riducono la tua libertà, ma non basta, ci dobbiamo lavorare tutte insieme».
Accusa le figure storiche del femminismo di tacere sull’invecchiamento. Cosa si aspetta dal femminismo?
«Invecchiare per le donne non è facile. Dai 50 anni in avanti vengono discriminate, diminuite, spesso offese come se non potessero permettersi di non essere più giovani. E neppure fertili, quasi fossero mammiferi al servizio della specie, da mandare al macello quando non figliano più. Mi aspettavo dal femminismo che il razzismo che discrimina le donne "di una certa età" fosse riconosciuto per quello che è: un problema politico. E come tale da affrontare e combattere insieme. Come abbiamo fatto a vent’anni».
Cosa pensa delle nuove generazioni? Sanno, per usare una sua espressione, «sculettare con il cervello»?
«Spero di sì. Oggi le ragazze hanno un rispetto di sé che io, alla loro età, ho conquistato a fatica. Parlano: noi tacevamo, parlavano i ragazzi. Le ragazze, l’esempio più eclatante è Greta Thunberg, sorvegliano il pianeta, cercano di svegliare chi governa e sonnecchia invece di agire. Io consiglio di sculettare col cervello perché la bellezza sfuma mentre l’intelligenza si affina».
Vittorino Andreoli rivendica l’uso della parola vecchio invece di senile o longevo, termini che, dice, addolciscono e quindi negano la realtà. Lei ha scelto «grandi adulti»: non è un modo per non nominare la vecchiaia?
«Io la vecchiaia l’ho sempre chiamata per nome, non voglio che il politicamente corretto inquini il discorso. Niente silver, senior, anziani. Vorrei che quando dico "sono vecchia" i miei interlocutori non si scandalizzassero. Grandi Adulti mi piace perché in una cultura che corteggia i mai-cresciuti rivendicare d’essere adulti vuol dire molto: contrapporre un’eroina o un eroe maturi al noioso "forever young" di chi sa solo guardare indietro, e prendersi le proprie responsabilità nei confronti di chi è nato dopo. Non tutti sono Grandi Adulti ma molte donne sì, lo sono, o ci provano. Un po’ meno gli uomini, ma si sa... hanno avuto vite più facili, sono meno allenati. È una forma d’arte invecchiare bene: il percorso è pieno di trabocchetti, ma se guardi dove metti anima e piedi è un territorio sorprendente».
Secondo il Censis, l’87,6% degli anziani è soddisfatto della propria vita, un dato molto più alto della media degli italiani (59,6%). Lei stessa dice di essere «vecchia e felice come non lo sono mai stata».
«Sì, perché mi sento padrona dei miei mezzi espressivi. Il bisogno di ricevere riconoscimenti è finalmente sopito, spazzato via dall’intensa gioia di voler scrivere, e di saperlo fare. Da due decenni mi occupo di arredare questa parte negletta della vita, scrivendo libri e curando una collana di romanzi rosa».
Che importanza hanno l’amore e il sesso?
«Chi li ha sempre messi al centro continuerà a farlo e deve conquistarsi il diritto di non essere guardato con curiosità pettegola o sufficienza. L’eros non ha scadenze. Amare non è mai ridicolo. Allo stesso tempo non deve essere colpevolizzato chi ha chiuso quel capitolo. L’amore è più fantasioso di come lo immaginiamo».
Madonna ha di nuovo denunciato l’ageismo, la discriminazione subita a causa dell’età. A lei è successo?
«Spesso. L’ultimo episodio in un ristorante di Milano: ho scherzosamente chiesto al cameriere di darsi una mossa con le pizze dato che aveva servito solo mio marito, che aveva ordinato il pesce, e la mia nipotina seienne cascava di sonno. Ho detto: "Si sbrighi se no mi tocca divorziare". E lui: "Doveva pensarci prima, signora, adesso non ne trova più un altro". Il poveretto non sapeva che avrebbe ricevuto un comizio in piena regola. Era annichilito e tutto il ristorante lo guardava, con riprovazione».
Che spazio hanno oggi i giovani? È possibile la solidarietà intergenerazionale?
«Il gap generazionale oggi è aggravato dalla longevità di massa e dalla miseria del banchetto a cui sono invitati i principianti. Facile scatenare una guerra fra poveri. In una società giusta e civile ci deve essere posto per tutti. E non sono certo i Grandi Adulti a contendere lo spazio ai ventenni».
Come dovrebbe affrontare la politica questioni come la povertà o la solitudine degli anziani?
«Sono stata assessore alla cultura e alle politiche giovanili del Lazio: ripensando a quella esperienza mi sono chiesta se non si dovrebbe istituire un ministero delle Politiche senili. Dall’istruzione al co-housing, c’è molto da progettare. Siamo tanti, noi over 65, e siamo un problema politico».