La Stampa, 19 febbraio 2023
I 90 anni di Yoko Ono
Yoko Ono è la sconosciuta più famosa del mondo. Stava con John Lennon da poco quando lui disse che la sua condanna era e sarebbe stata sempre questa: tutti avrebbero saputo chi era ma non cosa faceva. Con chi stava, ma non cosa pensava. Aveva ragione. Era vero allora, sessant’anni, fa, e lo è tuttora: Yoko Ono è, per noi, quello che le abbiamo cucito addosso, l’archetipo che abbiamo avuto bisogno che incarnasse. La strega. L’intrusa. L’incantatrice. Quella che ha distrutto i Beatles, ha plagiato John Lennon, gli ha inquinato la carriera, lo ha rapito, trasformato, plasmato a sua immagine e somiglianza, sfibrato, reso irriconoscibile. L’hanno odiata e la odiano tutti o quasi. E anche chi è disposto a riconoscere la pregiudizialità di quell’odio, chi ne vede il fondamento in un’invenzione, non sa stare dalla sua parte, non si dispone a guardarla: dice che lei, tuttavia, è antipatica, inquietante, insopportabilmente strana. Come se, in fondo, quel disprezzo se lo fosse andato a cercare.
Non succede, con Yoko Ono, quello che di solito succede con le vittime di discriminazione, o fraintendimento: nessuno si adopera per un ravvedimento, a nessuno importa di correggere la narrazione. Lei non se ne è mai lamentata e, soprattutto, non ha mai ricambiato, non ha reagito. Niente, nella sua vita, ha le sembianze di una difesa. Al mondo che la odia anche adesso che ha novant’anni, per il suo compleanno, ha fatto persino un regalo: ha creato un albero virtuale dove chiunque può appendere un desiderio o, semplicemente, leggere quelli degli altri. Lo ha annunciato su Instagram dove ha poco più di 600 mila follower, che per essere la sconosciuta più famosa del mondo non sono niente. All’albero dei desideri - wishtreeforyokoono - ci giocava da bambina, quando era la figlia di un ricco banchiere giapponese e viveva nell’agio, in un palazzo con trenta servitori, e suo padre voleva che diventasse una pianista, cioè la cosa che lui non aveva avuto il coraggio di fare, ma le misurava continuamente le dita e, sdegnato, le diceva che erano troppo corte, facendola piangere disperatamente. La musica era la sua compagna: una delle poche ammesse nel palazzo in cui viveva, e dove sua madre aveva stabilito che potessero farle visita solo amichette del suo stesso lignaggio. Durante la Seconda guerra mondiale, suo padre scomparve a lungo e sua madre portò in salvo lei e le sue sorelle e fratelli in un villaggio dove erano detestati da tutti: ricchi privilegiati schifosi. I contadini la insultavano e le sputavano addosso quando la incontravano per strada.
Non ha raccontato nessuna di queste cose con il tono della denuncia, non ha mai scritto una biografia, ha lasciato ricordi frammentati in qualche intervista, qualche performance, qualche chiacchierata, qualche racconto.
A Yoko Ono sono sempre interessate le storie degli altri, anche se gli altri sono stati con lei ingiusti, assurdi, indisponibili e indisponenti. E non le hanno riconosciuto alcun merito, e meno che mai alcun fascino.
Ci siamo tutti fidati del fatto che alla sua espressione impenetrabile corrispondesse un cuore spento, vitreo. Non le abbiamo mai concesso il beneficio dell’empatia, che abbiamo elargito a chiunque, persino ai dittatori. Non abbiamo idea di quante cose incredibili, affascinanti e importanti abbia fatto (Matteo B. Bianchi le ha raccontate in un libro edito qualche anno fa da Add Editore, nella collana Incendi: Yoko Ono. Dichiarazioni d’amore per una donna c ircondata d’odio). E nemmeno ci importa di spiegare e capire perché abbiamo avuto così tanto bisogno di detestarla: farlo significherebbe decostruire un rancore, e quindi disarcionarlo, annullarlo, e rinunciare alla valvola di sfogo che ci offre.
Yoko Ono è, prima di tutto, l’archetipo della donna che ostacola l’amicizia maschile.
In De l’amitiè (1580), Montaigne scrisse che c’erano gli amici maschi e basta: femmine niente: «Ce genre est rejettè». Yoko Ono e Chiara Ferragni sono state entrambe accusate di aver indotto i propri compagni a rompere i propri sodalizi artistici, che prima di ogni cosa erano sodalizi amicali, perché se c’è un’idea potente (resistente), sulle donne, è che siano possessive e gelose abbastanza da non ammettere, per mariti e compagni, altre relazioni all’infuori di quella che le coinvolge. Nella maggior parte della letteratura europea, almeno fino all’Ottocento, per le donne, gli amici si dividono, se le danno, s’ ammazzano, si fanno ammazzare. Quando arrivano le ragazze, finiscono i giochi, si diventa adulti, s’inscurisce tutto, la vita si fa plumbea, borghese. Questo ha voluto, per secoli, il cliché. Ed è stato (è?) un cliché che è maschilista ma pure assai spregiativo per i maschi: li riduce a marionette.
Ma Yoko Ono ci è servita soprattutto ad altro: a non ammettere che, a un certo punto, un artista può cambiare, che ci può tradire, che può smettere di fare quello che ci aspettiamo, che può non poterne più di cantare Obladì Obladà e volere, invece, registrare il rumore, cercare il silenzio, interrompere la simbiosi con noi e principiarla con qualcun altro.
Detestare Yoko Ono, così come detestare Courtney Love, moglie di Kurt Cobain (anche lei accusata di ogni nefandezza e ritenuta perfino responsabile di aver indotto al suicidio suo marito), ci è servito a non fare i conti con il fatto che gli artisti non sono a nostro servizio e che, a un certo punto, per sopravvivere, devono abbandonarci, perché siamo intollerabili borghesi, noiosi monogami, più insopportabili e possessivi e assurdi di un esercito di mogli.