La Stampa, 19 febbraio 2023
Il ritornello della pace impossibile
Pace: da quando è iniziata la guerra in Ucraina è l’espressione tappabuchi che colma i baratri mentali, occulta i retropensieri, è il mantra che sacralizza l’immobilismo, la parola magica che elude tutte le infinite contraddizioni. La usano coloro che la fine della guerra la vorrebbero davvero e si ritrovano sconsolati in sparuti gruppetti che presidiano piazze indifferenti e distratte. La grida il Papa che dal bellicismo tracotante è stato relegato al ruolo di volenteroso predicatore di quello che sarebbe bellissimo ma non è, ovvero il contrario della religione che deve essere sempre rivoluzionaria rispetto alle nefandezze della Storia. La usano, con ipocrita appropriazione indebita, coloro che esigono la Vittoria. Per cui pace è un sostantivo ingiurioso. E li trovi da questa e dall’altra parte della trincea e soprattutto nelle comode retrovie occidentali dove serve spesso a riempire i forzieri di Mammona, di denaro e geopolitiche influenze e obbedienze. A usare la parola pace si rimedia l’insulto di vile: venduto alla resa, utile idiota dei despoti, catastrofista, malintenzionato. Mentre la pace semmai richiede forza erculea, coraggio, determinazione, intelligenza metodo.
La userà certamente anche Giorgia Meloni in visita nei prossimi giorni a Kiev. Allora proviamo a lasciarla da parte la parola pace. Liberiamocene. In questo momento della guerra è troppo grande, inutile. Proviamo a calarci, con fantasia e coraggio, nella sacrosanta tecnologia dell’impedire che gli uomini si uccidano, a imparare l’abbecedario che aiuta a circoscrivere e spegnere i conflitti. Questo impone di scartare i reciproci progetti di vittorie totali, di rese senza condizioni, l’idea di asservire l’Ucraina o di dividere in pezzi la Russia.
Sono tentazioni impossibili. Mosca ha imparato a sue spese che la Ucraina non può essere cancellata, perché trasformata dal 2014 in una potenza militare moderna, protetta dall’ombrello americano. Kiev continua a parlare di controffensive di primavera per umiliare la Russia ma sa che è propaganda, a corto com’è di uomini e di munizioni.
L’unico risultato possibile, obbligatorio se non si vuole gestire un deserto etico, spirituale, ora è fermare il potere devastatore che uccide migliaia di uomini ogni giorno. Coraggio pacefondai! Come in una elettrolisi che parte da due poli estremi si deve sostituire alla pace impossibile il concetto minimo, iniziale di cessate il fuoco. Quello che bisogna realizzare è l’interruzione, per una settimana, delle operazioni sul terreno, bloccare le rispettive posizioni sul campo di battaglia. Ci sono le condizioni: i due avversari sono esausti, l’Occidente che tiene in piedi la guerra inizia, oltre il gesticolare propagandista, ad interrogarsi sulla mostruosa usura economica e militare e sui rischi di sviluppi atomici. Bisogna impedire che i due eserciti si asserraglino nelle trincee trasformando il conflitto in un lento macello senza fine.
Rileggiamo un precedente ricco di insegnamenti, la guerra di Corea a metà del secolo scorso. Fu un macabro tributo alla totalità della guerra moderna, alimentato per tre anni da un giulivo entusiasmo bellicista («fermare i rossi»… «annientare i capitalisti»). I bombardamenti a tappeto, la terra bruciata, i crimini di guerra, del nemico ovviamente, venivano descritti non con il riflesso della pietà obbligatoria per qualsiasi sentimento umano, ma con una allegra ottusità morale. Se ne registrano, da un anno, echi inaspettati e macabre rifrangenze in Europa. La guerra, quando iniziarono i difficili incontri tra le parti, tra litigi, accuse e rinvii, era in una situazione di stallo, nessuno era in grado di vincere. Come accade ora nel Dombass: ci si massacra per qualche centinaio di metri di rovine e di steppa dove si attende che alla neve si sostituisca il fango. Per accettare di fermare i combattimenti senza vittoria l’America dovette prima licenziare Mac Arthur, il generale che sognava folli attacchi atomici e aveva, a colpi di bugie, trasformato il macello nella sua guerra privata, l’ultima occasione di gloria per un vecchio “Cesare americano’”. Il cessate il fuoco anche ora farebbe passare la parola dai militari ai politici, toglierebbe voce agli oltranzisti della vittoria a tutti i costi, a Washington, a Mosca, a Kiev.
Uno dei principi fissati dall’Onu nel 1951 per negoziare recitava: «quando avviene una cessazione del fuoco sia come risultato di un accordo ufficiale sia di una tregua di fatto nei combattimenti, si deve approfittare di essa per analizzare passi ulteriori da compiere per il ristabilimento della pace». Ecco: il cessate il fuoco interrompe il massacro degli innocenti e fa guadagnare tempo.
Tempo per allargare la breccia, prolungarlo, rafforzare la squadra dei mediatori neutrali, dar voce ai moderati, determinare crepe nelle autocrazie che la guerra combattuta invece consolida, trovare un luogo dove le parti, Russia e Ucraina, Stati Uniti e Cina, possano discutere, litigare, fissare nuovi incontri. Il cessate il fuoco può diventare armistizio che non è certo la pace, per cui occorrono anni. Ma quello firmato a Pannunjon in Corea sul trentottesimo parallelo non è mai diventato una pace; ma regge, precario, incerto, dal 27 luglio 1953. La guerra di Corea ha fatto quasi tre milioni di morti. Da quel giorno, per quel conflitto nato da anche esso una invasione, non è morto più nessuno.