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 2023  febbraio 19 Domenica calendario

Susan Cain parla di malinconia

«Vuol sapere come è iniziato tutto?
Da una domanda che mi girava in testa quando ero ragazza e restavo sola nel dormdella mia università. Mi chiedevo: perché ci piacciono tanto le canzoni tristi, o piccoli capolavori di musica classica come l’Adagio di Albinoni?». Per rispondere alla domanda Susan Cain, 54 anni, americana, ha fatto il giro lungo: avvocato di successo a Wall Street, nel 2012 ha pubblicato Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare (in Italia uscito per Bompiani). Il libro, all’epoca, non pareva esattamente nello spirito del tempo, soprattutto negli Usa. E invece si è rivelato un bestseller (4 milioni di copie vendute fino ad oggi), le ha dato notorietà (il suo Ted Talk sul tema è stato visto 30 milioni di volte) e le ha permesso di dedicarsi full time alla scrittura. Portandola a cercare la risposta a quella domanda sulle canzoni tristi, e a molte altre, nel suo nuovo Il dono della malinconia(Einaudi Stile Libero). Ne è uscita un’indagine a tutto campo, dalla musica all’arte, dalla religione alla psicologia, sul perché la nostra cultura sia così ostile a quel sentimento che lei definiscebittersweet, la malinconia dolceamara. Dalla sua casa nella Hudson Valley, a nord di New York, Cain ci spiega qual è il costo, in termini individuali e sociali, di questa rimozione. E come fare marcia indietro. Ricominciando, a sorpresa, dalle radici. E persinodalla mistica.
Prima il silenzio, caratteristico degli introversi, ora la malinconia. Lei è diventata un’esploratrice dei sentimenti che nella nostra società iperconnessa e chiassosa vanno meno di moda. Si aspettava tanta attenzione?
«Ho sempre voluto scrivere, fin da quando ero bambina, e quindi sono grata di questo successo e dell’impatto positivo che posso avere sugli altri scrivendo, anche se per me tutta questa esposizione non è stata sempre semplice da gestire. Quando scrissi Quiet a moltisembrò un argomento bizzarro. Mi spiego con un esempio: andai in tv, da Oprah Winfrey, a parlarne. Io ero nervosa ma lo era anche la producer dello show. Non sapeva se ciò che avevo da dire poteva interessare qualcuno. Sono tornata da Oprah qualche giorno fa per parlare de Il dono della malinconia e ho sentito un’atmosfera diversa. Ci stiamo educando a non nascondere il dolore».
È un lascito della pandemia?
«Sicuramente la pandemia ha fatto esplodere un malessere sociale così vasto che non può essere nascosto.
Credo che non siamo più disposti a fare finta di niente».
Lei compie un’operazione curiosa: resuscita la teoria degli umori di Ippocrate per affermare che la cultura statunitense, così influente a livello globale, è una cultura «del collerico e del sanguigno».
«Gli Usa si fondano sull’aspettativa sociale del sorriso. A “Come stai?” devi rispondere “Alla grande”.
“Bene” non basta. Ma la musica, la poesia, la letteratura, le religioni, raccontano un’altra storia: sono un tentativo di afferrare la gioia e il dolore costitutivi dell’esperienza umana. Io mi fido di quest’altra storia perché racconta una verità più profonda. Ossia, che c’è una forma di felicità più intima che deriva, paradossalmente, dall’abbracciare questi sentimenti di dolore e nostalgia».
Lei demolisce lo stereotipo della nostalgia come solipsistica.
E riflette sulla “compassione”, quel patire insieme che abbiamo forse dimenticato.
«L’esperienza umana non cambia, ciò che muta è la nostra risposta culturale a ciò che accade. E dunque il cambiamento è possibile, anzi sta già avvenendo».
Il libro, oltre che una riflessione sulle arti, è anche un’indagine interdisciplinare, dalla religione alla ricerca psicologica, sulla malinconia. Che cosa l’ha colpita di più?
«Ci tengo a dire che io mi occupo di malinconia e non di depressione, che è uno stato clinico ed esula dal mio libro. Ciò chiarito, ritengo che uno degli sviluppi più interessantidella psicologia siano gli studi su come l’esperienza del dolore si trasmetta da una generazione all’altra e su quanto sia importante ristabilire una relazione con i propri avi, soprattutto se vi è stato un trauma. Ma la vera scoperta per me è relativa alla religione».
Ha riscoperto la religione?
«Non mi sono resa conto che ciò che avevo intrapreso era una ricerca spirituale. Le risposte più profonde alle mie domande le ho trovate studiando le religioni, in particolare le tradizioni mistiche.
L’essenza del misticismo implica che come esseri umani viviamo in uno stato di desiderio di unione con il divino: più ci immergiamo in questo desiderio più ci avviciniamo a ciò che cerchiamo. Riportato al piano secolare, si tratta del desiderio di amore e di verità. E qual è il motore della creatività se non questo desiderio? Inoltre, nelle tradizioni mistiche, penso ad esempio alla Cabala ebraica, c’è l’idea che tutto ciò che c’è nel mondo è contemporaneamentebroken and beautiful. Riconcilia con il fatto che il male nel mondo esiste simultaneamente a tutta questa bellezza, senza negarlo».
Per questo, tra tutti gli artisti e poeti e musicisti che cita, Leonard Cohen è il suo preferito?
«Esatto. Penso alla sua Hallelujah, e a come esprime questo concetto.
Ma penso anche alla poesia di Rumi, il mistico persiano del ’200.
Ora so cosa cercavo leggendolo».