la Repubblica, 19 febbraio 2023
Il ratto delle kirghize
«Avevo 19 anni. Ero tornata nel mio villaggio natale per partecipare a un matrimonio. L’avevo visto soltanto una volta, ogni tanto ci scrivevamo. Una mattina ero uscita per fare degli acquisti e l’ho incontrato davanti al negozio. Mi ha proposto un giro in macchina insieme, ho accettato». Ainura Zarmanbetova, oggi 33 anni, parla con distacco del giorno in cui il suo ex marito l’ha rapita. «Mi ha condotta da lui, e quando siamo arrivati c’era tantissima gente ad aspettarci. Allora ho capito. È sceso dall’auto, io mi sono chiusa dentro, ma mi hanno tirata fuori e trascinata in casa. Le donne mi hanno spogliata e rivestita con un abito. Ero sotto choc, piangevo e ridevo. Sua madre mi ha poggiato un fazzoletto bianco sulla testa. A quel punto era già troppo tardi».
In Kirghizistan, piccolo Stato post- sovietico stretto tra la Cina e il Kazakistan, si stima siano almeno 12.000 le donne e ragazze rapite a scopo di matrimonio ogni anno. Per farsi un’idea, nel 2021, le cerimonie celebrate nel Paese sono state poco più di 50.000. Il sequestro può avvenire con l’inganno, come accaduto ad Ainura, non di rado attraverso la violenza, di norma perpetrata con l’aiuto degli amici del futuro sposo, come “fuitina” o talvolta come messa in scena, per rispettare quello che viene oggi percepito come un antico rito nomade.
L’indipendenza, ottenuta nel 1991, ha coinciso con la volontà di recuperare un’identità nazionale schiacciata da oltre un secolo di russificazione e sovietizzazione. E pratiche come l’ ala kachuu, letteralmente “prendi e scappa”, sono diventate sempre più diffuse benché gli storici ne neghino l’accuratezza, ritenendole piuttosto delle tradizioni «reinventate». Prima del XX secolo, tra le tribù turciche dell’area la regola erano i matrimoni combinati. Il ratto delle donne esisteva, ma non era certamente un’usanza. Basti pensare che nell’epos fondante della nazione kirghiza, Manas, non ve ne è traccia. Il rapimento costituiva un grave insulto nei confronti della famiglia della ragazza, provocando aspri conflitti tra clan. Eppure, nella società kirghiza contemporanea questa pratica brutale è stata rielaborata come un’espressione di specificità culturale, un’usanza tradizionale da difendere. E ciò ne spiega la grande popolarità, in particolare nelle aree rurali, nonostante si tratti di un crimine punibile con pene fino a dieci anni di carcere. Tuttavia, raramente è perseguito. Tra il 2019 e il 2021 i casi denunciati sono stati in media 200 l’anno, e di questi solo una minima parte, circa il 5 per cento, è arrivato in tribunale.
Burulai Turdaaly Kyzy aveva diciannove anni, studiava da infermiera a Biškek, la capitale, e si stava per sposare. Già una volta, la famiglia l’aveva salvata da un rapimento, ma l’uomo che l’aveva presa di mira l’ha sequestrata di nuovo. Con l’aiuto di un amico l’ha afferrata in strada e portata via in macchina. Il padre della giovane si è subito rivolto alle forze dell’ordine. I tre vengono fermati a un posto di blocco e condotti alla stazione di polizia. Qualche ora dopo, alla famiglia che aspettava l’uscita della ragazza difronte all’edificio viene detto che Burulai è morta, uccisa a coltellate dal suo rapitore. Com’è potuto accadere? La polizia non ha fornito le registrazioni delle telecamere di sicurezza. Il sospetto è che siano stati lasciati soli intenzionalmente, perché si rappacificassero. Era il 2018, e il caso ha prodotto una fortissima reazione civile nella società kirghiza, aggregando tante donne attorno alla comune volontà di cambiare le cose.
Negli ultimi cinque anni, una nuova generazione di attiviste è emersa prepotentemente in questo stato centroasiatico a maggioranza musulmana sunnita, nonostante la feroce opposizione di parte della società. «I social media hanno dato unenorme impulso alla crescita del femminismo in Kirghizistan. Articoli provenienti dalla Russia, dall’Ucraina o dalla Bielorussia, dove il movimento delle donne era più sviluppato, hanno iniziato a circolare, così come le traduzioni di libri occidentali», racconta Zanna Araeva di Bishkek Feminist Initiative, la più importante organizzazione femminista del Paese. «L’ala kachuu si inserisce all’interno di un sistema», afferma. «Finché ogni poliziotto, giudice o procuratore non capirà che si tratta di una violazione dei diritti umani, nulla potrà cambiare».
Annesso dall’impero zarista nel 1876, e poi divenuto parte dell’Unione Sovietica, il Kirghizistan continua ad avere legami strettissimi con Mosca. Presente in tutte le organizzazioni internazionali guidate dal Cremlino, la sua popolazione è esposta all’influenza dei media russi, la cui lingua è largamente parlata. Oltre un quarto del Pil del Paese è costituito dalle rimesse provenienti dalla Federazione, che utilizza una base militare a pochi chilometri da Biškek. «Guardiamo di continuo a loro, facendo copia e incolla delle leggi più liberticide», deplora Araeva. Un testo che punta a limitare il lavoro delle Ong, simile a quello sugli “agenti stranieri” approvato dalla Duma nel 2012 e successivamente inasprito, è in discussione, mentre qualche anno fa, per poco non è stata introdotta una versione persino più severa della legge russa contro la cosiddetta “propaganda gay”. Alcuni analisti sospettano che il Cremlino finanzi diversi gruppi nazionalisti nel Paese.
Nel processo di costruzione nazionale e di “ri-tradizionalizzazione” della società kirghiza, un ruolo importante è stato giocato dall’Islam, interessato da un poderoso risveglio nell’ultimo trentennio. Nonostante la pratica religiosa nel Paese sia sempre stata considerata come moderata, diversi segnali mettono oggi in allarme chi si occupa dei diritti delle donne. «La situazione è resa più grave dalle limitazioni economiche», espone Araeva. «Il Kirghizistan riceve tantissime risorse da parte degli stati del Golfo, come il Qatar e l’Arabia Saudita, che stanno investendo nella sua islamizzazione. E poiché il livello di istruzione e di pensiero critico della collettività è sempre più basso, la gente si beve qualsiasi fandonia. Per esempio, la scorsa estate, un imam di un distretto di Biškek ha sostenuto che il prezzo della carne è legato al valore della carne delle donne. E quando questo diminuisce, magari se le ragazze indossano i pantaloncini o le minigonne, il costo della carne al mercato sale. È una cosa talmente stupida, che neppure riesco ad afferrarne la logica, ma c’è chi ci crede». Una tendenza oscurantista che incute profondo timore: «Il nostro è il Paese più democratico dell’area, siamo abituati a un certo grado di libertà di espressione e abbiamo una solida tradizione di lotta per i nostri diritti. Se questi fossero soppressi da un giorno all’altro, sarebbe una tragedia immane. Il governo dovrebbe sostenerci invece di flirtare con i religiosi. Il rischio che un giorno possa capitare qui qualcosa di simile a quanto accaduto in Afghanistan o in Iran non può essere escluso, e dovremmo essere tutti uniti nel combatterlo».