il Giornale, 18 febbraio 2023
Perché ricordare Moravia
Il glorioso Circolo dei Lettori di Torino celebra Alberto Moravia. Non c’è in agguato nessun anniversario, e il titolo della rassegna, «Nato per narrare», è un po’ triste e anche ingiusto, a dispetto della lunga letteratura che lo accompagna. Personalmente preferirei la definizione di Sartre, secondo cui uno scrittore lo è sempre, di fronte a tutto ciò che accade (e non solo di fronte ai propri libri), ma si capisce che citare Sartre in un articolo su Moravia non è piacevole. Se io lo cito ugualmente è perché sono convinto che Alberto Moravia non abbia, a dispetto di tutti i dati di superficie, proprio nulla a che vedere con il filosofo francese. «Nato per narrare». Lo diceva sempre il mio caro, compianto prof di italiano al liceo, Giancarlo De Pero, che amava Moravia e ce lo faceva leggere e studiare. Volendo dunque prendere per buona questa lallazione, cerchiamo di dire qualcosa su quel participio passato, «nato», dove si condensa ogni possibile verità. Quello di Moravia è un mondo molto ben definito: borghese, fiacco e insieme molto violento. È l’oggetto dei libri più importanti (Gli indifferenti, Agostino) ma penetra anche nella prosa grado zero che, imparziale e impartecipe, lascia sfilare davanti a noi le vicende suburbane legate alla guerra (che nel Romanzo Italiano durò fino agli anni Settanta inoltrati), come per esempio ne La ciociara. Un mondo indifferente, moralmente dissoluto che Moravia a un tempo condanna e (stilisticamente) interiorizza, un mondo in altre parole che da un lato può essere solo narrato ma che si fa anche narratore, soggetto di narrazione. In questo cortocircuito si coagula, possiamo dirlo, la lingua del Romanzo Italiano del ’900. Se Moravia non è il più grande scrittore italiano del secolo passato (basterebbero i nomi di Pirandello, Gadda, Pasolini), ne è certamente il più grande romanziere, o comunque il più importante. Con lui prende forma adulta la lingua del Romanzo Italiano, una forma autoctona che sa di Francia ma senza desumerne alcun modello. Il suo capolavoro indiscusso, Gli indifferenti, scritto a vent’anni, colpisce il lettore per la grande maturità della scrittura. Un romanzo perfetto. Moravia nasce adulto, ed è proprio qui che il nostro radar intercetta il tema della nascita. La nascita non di un corpo, va da sé, ma di uno sguardo. A dispetto di uno dei più grandi libri di ogni epoca, La montagna incantata di Thomas Mann, e a dispetto dei disastri che nei nostri anni il covid ha prodotto sulle generazioni più giovani, noi oggi fatichiamo a comprendere la forza antropologica di una tragedia collettiva e prolungata come la tubercolosi, di cui Moravia adolescente fu affetto. Il suo non fu il solo caso, vengono alla mente nomi come quello di Thomas Bernhard, di Roland Barthes: tutti battezzati da questo male spaventoso non solo per la salute ma per la prolungata solitudine cui costringeva gli ammalati. Male non solo interno (chiuso morbo) ma anche interiore. Per mesi, si può dire, Moravia non fece altro che aspettare di morire. Tutta la letteratura, specie nella prima metà del ’900, è popolata di uomini che aspettano, e aspettano di morire: per una ferita di guerra, per una malattia, per una cancrena, per qualunque cosa, perfino per una bugia. Non che io voglia spiegare l’opera di Moravia con una vicenda biografica, però esiste in ogni vero scrittore, prima della prima parola scritta sulla carta, una risoluzione magari non del tutto cosciente sulla natura, sulla fisionomia del mondo. C’è chi ha un mondo interiore e chi non ce l’ha. E io credo, come lo credo per Bernhard, che nella solitudine più totale, nell’attesa di morire, Moravia abbia trovato la propria risposta alla domanda di tutti: che cos’è un uomo? La forza dello scrittore non fu questa, naturalmente: fu piuttosto la capacità di dare a quella desolata risposta una fisionomia stilistica e letteraria definitiva, e una forma definitiva: quella del Romanzo. Non occorre essere psicanalisti per cogliere il nesso tra l’immagine deteriore della borghesia nelle sue opere e l’ambivalenza delle sue varie figure materne, così come appaiono nei suoi libri: ciniche, infedeli, superficiali ma ugualmente e sempre madri, da mostrare nella loro miseria umana ma portatrici del latte della Lingua. Un cortocircuito che si ripete poi, speculare, in quella dialettica tra Soggetto e Oggetto del narrare di cui si diceva poco sopra. Questo è il Moravia destinato, secondo me, a vivere sempre. C’è poi, va da sé, il Moravia intellettuale di riferimento per tutti, l’uomo che, come Sartre in Francia, si volle al centro degli eventi. Un intellettuale vero ha due sole alternative: o siede al centro, ossia assume un potere, crea pensiero pubblico, o deve starsene fuori, lontano (anche questo è potere). Il resto è sciame, come lo chiamerebbe Jonathan Haidt, ossia discorso di gruppo, interazione impersonale. Sempre come Sartre prima di lui, Moravia scolorò da un esistenzialismo per metà originale e originario (la noia, che un po’ si contrappone alla nausea sartriana) a un’adesione piuttosto decisa al Partito comunista. Pasolini gli fu amico, forse; o forse si ingaggiò con lui un giocoso ma reale duello, allegro e feroce. Ebbe come donne diversi scrittori, tra cui Elsa Morante, che per molti riguardi gli fu superiore. Scrisse alcuni libri particolarmente brutti come Lui e io e La vita interiore, viaggiò molto, conobbe bene la Mosca sovietica, fu critico cinematografico, scrisse molti reportage e alcuni saggi assai importanti, come quello – sciagurato ma imprescindibile – sui Promessi sposi. Con l’avanzare degli anni non smise certo di narrare – come ricorda la rassegna torinese – ma la sua narrazione, il suo essere testimone di un mondo, non fu deputata solo ai romanzi, ma si sparpagliò, come si vede, in una pluralità di interventi, affievolendosi poi non per l’età ma per la perdita di centralità del suo pensiero. I tempi stavano cambiando, e lui lo sapeva. Quando morì, Moravia era già un uomo del passato. Se questo fu di lui, non lo stesso diremo per alcune sue opere, che superano senza problemi la barriera dei decenni. La sincerità, la crudeltà, la voluta piattezza del suo racconto sono davanti a tutti, a sfidare tutte le nuove generazioni di scrittori, ansiose di gloria e di prestigio. Una briciola del suo cinismo fa bene a tutti. Il disincanto è stato la sua musa implacabile. Ho riletto Gli indifferenti il mese scorso. Moravia è ancora lì, e ci guarda dal letto di un sanatorio, con lo sguardo di quelli che aspettano di morire e che, proprio per questo, non saranno più ingannati da nessuno.