Corriere della Sera, 18 febbraio 2023
Le urne non sono tutto
Il successo elettorale in Lombardia e nel Lazio risolve la questione dei rapporti interni della maggioranza e ne conferma la compattezza numerica ma lascia inalterato il principale problema del governo di Giorgia Meloni, che non è numerico ma è un problema politico di fondo.
È lo stesso problema, fatte salve naturalmente le debite differenze, che si trovò ad affrontare Alcide De Gasperi dopo la vittoria della Dc nel 1948. Ed è una somiglianza che contiene alcuni utili insegnamenti.
Il successo elettorale democristiano segnò allora un passaggio di fase decisivo.
L’ingresso in una stagione politica assolutamente inedita da molti punti di vista, non solo rispetto al recente passato fascista ma rispetto all’intero passato unitario: l’arrivo al potere dei cattolici per la prima volta nella storia d’Italia. Qualcosa del genere è accaduto pure il 25 settembre del 2022. Non solo dopo molti anni di maggioranze inesistenti e di governi presidenziali o tenuti insieme per miracolo, il risultato delle urne ha espresso un partito fortemente maggioritario (FdI), una maggioranza sufficientemente coesa, e soprattutto una leadership indiscussa. Non solo questo però. Per la prima volta nel Parlamento italiano il partito di maggioranza relativa proviene da una storia estranea allo sfondo ideologico che sta alla base della fondazione della Repubblica. Anzi nella sostanza contrapposto ad esso.
Ma non già perché milioni di elettori abbiano deciso improvvisamente di condividere quel passato identificandosi in esso. Il successo della destra, infatti, non è stato in alcun modo un successo di Fratelli d’Italia, è stato un successo personale di Giorgia Meloni (più significativo perfino di quello di Berlusconi nel ’94 che fu in parte notevole un successo del sentimento anticomunista ancora forte nel Paese). Questa volta, invece, per ragioni difficili da precisare, che forse attengono al mondo delle pulsioni e delle emozioni parte così importante della politica, milioni di elettori di un Paese vecchio e che si sente in declino, afflitto da decenni da problemi di cui nessuno è riuscito a venire a capo, hanno deciso di riporre la propria fiducia in una giovane donna priva di qualunque vera esperienza di governo ma dal piglio sicuro e dal parlare deciso, la quale prometteva di sapere quel che voleva e di sapere come farlo.
Certo, a vincere le elezioni del ’48, in una situazione completamente diversa fu invece la Dc con l’aiuto della Chiesa. Ormai da anni, tuttavia, la figura e la leadership di De Gasperi, le sue capacità di guida e di mediazione, costituivano un punto di riferimento imprescindibile. Nella percezione degli altri partiti così come delle masse elettorali la Dc era De Gasperi e De Gasperi era la Dc. Proprio perciò dopo la vittoria allo stesso De Gasperi fu possibile imporre – innanzi tutto al proprio partito – la scelta che si rivelò decisiva per il successivo mezzo secolo: la rinuncia al monopolio del potere da parte dei cattolici (allora numericamente possibile). Non solo attraverso l’ingresso nella maggioranza dei cosiddetti partiti laici ma addirittura con la nomina alla presidenza della Repubblica (Einaudi), a quella del Senato (Bonomi), ai ministeri allora decisivi più che mai degli Esteri e della Difesa (Sforza e Pacciardi) non già di «tecnici» bensì di esponenti politici di primissimo piano non espressi dal proprio partito e con storie diversissime dalla Dc. De Gasperi aveva chiaro, infatti, che in una svolta come quella che l’Italia stava attraversando, all’insegna di una frattura profonda, era necessario che proprio il partito indicato dagli elettori a guidare una tale svolta desse quanto più possibile l’idea che questa, lungi dall’avere un carattere per così dire di parte, dal corrispondere alla volontà di una fazione contro tutte le altre, viceversa aveva, e soprattutto voleva avere, dietro di sé il più vario arco di forze. Che alla radicalità della svolta doveva corrispondere l’immagine e la realtà della massima ampiezza possibile nella ricerca del consenso. E che naturalmente la prima prova di una tale intenzione non poteva che essere la composizione del governo chiamato a inaugurare la nuova fase della vita del Paese.
Giorgia Meloni non ha creduto di doversi ispirare a questo esempio. Concesso agli alleati quanto doveva concedere, invece di aprire ed allargare il fronte ha preferito all’opposto rinserrarsi nel quadrato difensivo dei suoi fidi, dei compagni d’arme di una vita, addirittura dei suoi intimi. Non ha pensato che alla novità della sua clamorosa vittoria, della vittoria di una parte che fino a quel momento non aveva mai partecipato in una posizione simile al governo della Repubblica dovesse corrispondere un’apertura a persone e ambienti con altre storie e altri passati. Non già per «rassicurare» (che non c’era e non c’è alcun bisogno di rassicurare) ma semplicemente per rafforzare la propria leadership e la propria autorevolezza. Per dare all’insieme della propria compagine di governo la capacità d’influenza, la penetrazione sociale che il puro potere, e per giunta un potere nuovo, da solo non può dare. E magari anche per cercare di contrastare quell’egemonia che la destra ha sempre rimproverato alla sinistra di esercitare, in realtà, però, giustamente invidiandogliela.
Da questo punto di vista il successo elettorale appena guadagnato dalla maggioranza cambia assai poche cose. Non risolve la fragilità fin qui dimostrata dal governo Meloni. Perché in un regime democratico governare non è, né può essere mai, un fatto esclusivamente numerico. Per usare parole famose, in un regime democratico governare è un plebiscito di ogni giorno. Che come tutti i plebisciti non si celebra però nelle aule parlamentari.