La Lettura, 18 febbraio 2023
L’Italia e il buddhismo
Nei giorni in cui veniva demolito il muro il Berlino, in cui finiva in macerie il progetto marxista-leninista di un’Europa programmaticamente atea, si ebbe in Italia una svolta epocale nei rapporti tra lo Stato e le religioni.
Lontano dai riflettori, il 29 novembre 1989, un parere del Consiglio di Stato certificò nulla ostare al riconoscimento dell’Unione buddhista italiana quale ente di culto. Costituitasi nel 1985, l’Unione riuniva nove centri rappresentativi di quasi tutto il buddhismo italiano. Grazie a quello scarno parere, contenuto in poco più d’una pagina, si apriva anche ai buddhisti italiani il percorso verso l’intesa con lo Stato che si sarebbe concluso quasi 25 anni dopo, con il voto in Parlamento dell’11 dicembre 2012 e la pubblicazione della legge sulla «Gazzetta ufficiale» il 17 gennaio 2013. Passata nel frattempo dai 9 centri fondatori a ben 64 centri affiliati, l’Unione buddhista, celebra oggi il decennale dell’intesa.
La svolta del 1989 riguardò non soltanto la fisionomia superficiale del paesaggio religioso. Certo, si prendeva atto che con il buddhismo c’erano ancora più religioni in Italia, che la religione degli italiani si era fatta ancora più plurale. Tuttavia in profondità, oltre l’apparenza, la svolta riguardava la natura della religione, la sua qualità, la sua essenza. Fino ad allora la religione per lo Stato italiano era coincisa con le varie denominazioni cristiane, con l’ebraismo e con l’islam, incontrato dapprima nelle colonie e poi nella crisi petrolifera del 1973 e nelle prime ondate migratorie. La religione era monoteista, abramitica, d’origine medio-orientale. Nel 1989, a partire dai suoi giudici amministrativi, lo Stato italiano accettava che il concetto di religione si estendesse fino a comprendere anche il buddhismo, con le sue diverse origini storiche, geografiche e culturali, la sua dottrina non teista, la sua assenza di divinità. Negli anni e nei mesi precedenti in vari ambiti cattolici si era contestata l’identità religiosa del buddhismo, pseudoreligione e dunque concorrente sleale nel sempre più aperto mercato religioso del Paese.
Il 15 ottobre 1989, poco più di un mese prima del parere del Consiglio di Stato, l’allora cardinale Joseph Ratzinger firmò un documento della Congregazione per la dottrina della fede da lui presieduta «su alcuni aspetti della meditazione cristiana». Quella lettera ai vescovi metteva in guardia contro i pericoli della contaminazione tra preghiera dei cristiani e tecniche meditative venute dall’Oriente ma riconosceva come tali le «religioni orientali» e le «grandi religioni non cristiane». Ormai anche i cattolici più refrattari dovevano accettare il buddhismo come religione. Dopo la svolta del 1989, e soprattutto dopo l’intesa del 2013, i buddhisti italiani si sono trovati di fronte una nuova sfida.
Non più bisognosi di accreditarsi come religione, si sono dovuti battere per affermare la propria originalità, per non diventare una religione come le altre, in particolare per non essere risucchiati nel modello chiesa su cui si basa la pubblica amministrazione. Invano l’Unione buddhista italiana chiese al governo che nell’intesa i propri funzionari fossero denominati «maestri del dharma». Pena il blocco delle trattative, fu imposta loro la categoria generica di «ministri di culto».
Maggiore fortuna ebbe la richiesta di prevedere condizioni speciali per i riti funebri e di non includere il matrimonio nell’intesa, sicché non esistono matrimoni buddhisti con effetti civili. La sfida è ancora in corso e non soltanto per il buddhismo. La categoria di religione è sinonimo di riconoscimento e protezione, ma omologa, appiattisce; mette a rischio la diversità.