Linkiesta, 18 febbraio 2023
Su trans e quant’altro
Spero che gli avvocati di Baricco non mi chiedano le royalties se saccheggio per la milionesima volta quelle sue due righe per dire che accadono cose che sono come domande, passa un minuto oppure anni e la vita risponde.
In questo caso, un giorno: ragionevole via di mezzo tra minuto e anni. Un giorno tra la lettera degli editorialisti del New York Times, e l’editoriale di Pamela Paul. Un giorno tra la resa di Nicola Sturgeon e un altro editoriale, sul Washington Post. Ma, prima di parlarne, bisogna chiarire il contesto.
Il contesto delle opportunità sanitarie rispetto alla disforia di genere in America è, innanzitutto, un contesto americano. Cioè relativo a quel paese in cui ogni giorno si leggono storie dell’orrore su donne che sono dovute andare in un altro stato a liberarsi d’un feto morto contenuto nel loro utero e per il quale stavano andando in setticemia.
Riformulo, casomai non fosse chiaro: un paese che, quando la sua Corte suprema ha stabilito che un cavillo relativo alla privacy non bastava a permetterti d’abortire, non è riuscito a elaborare leggi locali sensate per cui, anche se l’interruzione volontaria di gravidanza non è consentita, una tizia che ha avuto un aborto spontaneo possa farsi fare un raschiamento senza che l’alternativa sia il suo morire d’infezione come se fossimo nel ’500, o l’andare i suoi medici in galera come se fossimo in un romanzo della Atwood.
A un paese il cui buonsenso sta messo così, l’americanizzazione dell’occidente ha affidato il ruolo di guida morale sul tema «se mio figlio gioca con le bambole e si declina al femminile, mio figlio che ha due anni e non sa la grammatica e non sa la biologia e non sa allacciarsi le scarpe, sarà il caso di fargli cominciare un percorso medicalmente assistito verso la transizione di genere?».
Farebbe ridere, se non ci fosse da preoccuparsi. In paesi meno smaniosi del nostro di sembrare americani, e quindi meno pieni di articoli deliranti sul tema dei bambini trans (sì, La Stampa, sto proprio alludendo a te), ogni tanto qualcuno osa dire «mi sembra che stiate sbarellando» (comunque si dica, in inglese, sbarellare).
C’è la prima ministra scozzese che infine è costretta a dimettersi perché le femministe inglesi, diversamente da quelle italiane, non temono la riprovazione sociale se dicono che l’identità di genere, della quale Nicola Sturgeon è stata sacerdotessa, è un oggetto di fantasia.
C’è la Rowling – Joanne, divenuta famosa con le iniziali J.K. perché l’editore diceva che i bambini maschi non avrebbero voluto una fiaba scritta da una femmina – che potrebbe contare i miliardi tutto il giorno (io al suo posto farei gran nuotate nei dobloni) e invece si mette di traverso alla questione più immorale di questo secolo, e non molla (dove trovi la pazienza e la voglia d’insistere è un mistero: meno male che ci sono quelle con la tigna).
E c’è il New York Times che, com’è abbastanza normale faccia un grande giornale, su questo tema pubblica articoli in diverse direzioni. Una settimana fa, un articolo stigmatizzava le leggi antitrans negli stati repubblicani. I trans hanno problemi a farsi curare? Immagino di sì, in un paese in cui le donne hanno problemi a farsi fare un raschiamento.
Ma ovviamente il dibattito non è sullo specifico sanitario ma sulla percezione sociale del tema, e immagino che la direzione del giornale abbia guardato i commenti dei lettori, che sul New York Times sono molto controllati, e si possono vedere in ordine di preferenza degli altri lettori. Quello con più approvazioni, 1269 nel momento in cui scrivo, dice: «Sono un uomo gay, ma credo si debba fare un passo indietro, o anche due, da quella che è diventata la politicizzazione dei trattamenti medici per i bambini che potrebbero essere trans. Anni fa, una famiglia del mio quartiere ha annunciato con una bandiera trans sulla porta che il loro fino ad allora figlio di otto anni era trans. Da allora, una simile epifania è accaduta ad altre tre famiglie nel nostro isolato. Quattro bambini trans in un solo isolato a Pittsburgh? Non credo proprio».
È interessante che Michael di Pittsburgh debba premettere «sono gay», per non venire accusato d’essere repubblicano, transfobico, e orrendamente normale (significa: medio; lo preciso perché ho grandissima fiducia nella capacità dei lettori di non strapparsi i capelli strillando «ci ha dato degli anormali»). È interessante che per dire l’indicibile, cioè che trattasi di contagio sociale e che i bambini d’oggi vogliono essere trans come noialtri volevamo le Timberland, e non venire accusati di essere propagandisti di destra, si debba dire: ehi, però sono un po’ strano anch’io.
Poiché ogni tanto, negli ultimi mesi, il NYT ha scritto che imbottire i bambini di ormoni forse non è un’ottimissima idea (diventerà il più gran scandalo sanitario della storia: bambini che dicevano «sono femmina» come avrebbero detto «sono Batman» che, divenuti adulti con l’osteoporosi, faranno causa a Biden per aver favorito il brodo di coltura di questo delirio), l’altro giorno i suoi editorialisti più smaniosi di posizionarsi come prescrittività sociale vuole hanno scritto una lettera aperta contro l’ardire di mettere in dubbio la giustezza del culto trans.
Passa un giorno, e la vita risponde. Ha risposto pure la direzione, dicendo che non è consentito firmare lettere aperte in cui si parla male del giornale che ti paga (ma tu pensa), ma soprattutto è stato pubblicato sul NYT un editoriale di Pamela Paul in difesa di J.K. Rowling – quella che è riuscita a farsi prendere sul serio restando donna, benché abbia delle iniziali ambigue per vincere la diffidenza del mercato nei confronti delle donne. (Va altresì detto che le iniziali ambigue, diversamente dai medicinali per la transizione, non ti fanno venire l’osteoporosi).
L’editoriale principale su questo delirio postmodernista era però già uscito sul Washington Post, e non conteneva mai la parola “trans”. Precedendo la lettera degli editorialisti del NYT, e non citandone mai l’argomento, Megan McArdle è riuscita a scrivere l’articolo definitivo sul dibattito intorno alla transizione di genere. Parlando del complesso di Edipo, e di Walter Freeman.
Walter Jackson Freeman era un medico, nato alla fine dell’Ottocento e morto cinquant’anni fa, che nella sua carriera aveva eseguito quattromila lobotomie. Negli ultimi anni della sua vita girò gli Stati Uniti per andare a trovare le persone che aveva operato, cercando indizi che gli dicessero che le lobotomie erano state una buona idea e lo assolvessero moralmente.
Dice McArdle che c’entra quel complesso lì: se Edipo non avesse saputo di chi era figlio, non si sarebbe cavato gli occhi; se Giocasta non avesse saputo di chi era madre, non si sarebbe impiccata. A volte è meglio non sapere. A volte siamo pronti a tutto pur di non ammettere neanche con noi stessi d’aver perorato procedure e ideologie che fanno danni irreversibili.
Per mentire a te stesso, devi spararla sempre più grossa: non è che ho fatto cambiare sesso a una bambina non in grado di capire cosa significasse restare sterili, è che se non l’avessi fatto si sarebbe ammazzata. Poi il tempo sclerotizza le scelte, e dopo un po’ puoi cominciare a dire che sono le Rowling cattive che vogliono morti i bambini trans, mica tu che prendi sul serio le idee sull’identità di gente abbastanza giovane da non avere il permesso di bere alcolici perché vuoi sentirti moderno.
Quello che la McArdle non dice lo aggiungo io, per completare con un ultimo tassello la questione del «ma anche la medicina è d’accordo, il manuale delle malattie psichiatriche non considera più una patologia il percepirsi d’un altro sesso, e io mi fido della scienza»: il tizio che inventò la lobotomia vinse il Nobel per la medicina. La cosa più antiscientifica e dannosa che si possa fare alla scienza è rifiutarsi di metterla in discussione.