Avvenire, 17 febbraio 2023
Gli italiani che fecero il basket
Tutto cominciò con due ceste di vimini, di quelle che si usano per la frutta. Furono questi i primi rudimentali canestri in quel lontano inverno del 1891. Nell’aula magna dello Springfield College, in Massachusetts, un professore di educazione fisica, James Naismith, alzò la prima “palla a due” di sempre. Cercava un passatempo per far allenare i ragazzi durante la brutta stagione, diede vita a un gioco che dagli Stati Uniti oggi ha conquistato il mondo. La storia del basket è senza dubbio marchiata a stelle e strisce, ma si può rimanere sorpresi di come, in fondo, parli anche un po’ italiano.
Per riavvolgere il nastro, un formidabile viaggio nel tempo lo offre adesso anche un libro che farà contenti gli appassionati: Basket. I momenti magici (NuiNui, pagine 188, euro 34,90) di Alberto Bertolazzi. Uno di quei volumi da leggere ai propri figli che rimarranno affascinati già solo dalla bellezza delle foto: alcune poi parlano da sole perché entrate nella leggenda di questo sport. Con la possibilità, tramite un QR code, di essere anche indirizzati ai suggestivi filmati d’epoca. Quando però sei sicuro di perderti tra gli assist di Magic Johnson o tra le prodezze di Larry Bird, ti fulmina la storia di un “Michael Jordan” di origine italiana, 50 anni prima del fenomeno dei Chicago Bulls. Parliamo di “Hank” Luisetti (19162002), il cui nome di battesimo, Angelo Enrico, ce lo fa sentire ancora più nostro. Nacque a San Francisco in un momento in cui nella città, rasa al suolo dal terremoto e dagli incendi, c’era grande richiesta di manodopera. Stefano Luisetti, suo padre, partì per l’America trovando fortuna prima come muratore e poi come ristoratore. Hank, cresciuto fino a 190 centimetri di altezza, ma dal fisico esile tant’è che lo chiamavano “Spiderlegs” (gambe di ragno) cominciò la sua scalata dai campetti di quartiere. Fino a cambiare per sempre questo sport. Eh già, perché oggi sembra scontato, ma negli anni Trenta si tirava ancora solo con due mani. Fu proprio Hank a introdurre il tiro a una mano e in corsa (il “jump-shot”) diventando immarcabile.
L’apoteosi si verificò il 30 dicembre del 1936 quando si esibì per la prima volta nell’Est al mitico Madison Square Garden di New York. La sfida tra Stanford, la sua università, e Long Island era il confronto tra due mondi diversi. E lui mandò in visibilio la folla record di 17.623 spettatori: tutti estasiati per quel funambolo che tirava con una mano sola e si faceva notare anche per l’attualissimo palleggio dietro la schiena. I padroni di casa persero un’imbattibilità che durava da 3 anni e 43 gare. E da quel giorno tutti i ragazzini provarono a tirare come Hank. Memorabile quel che dichiarò il coach di Long Island ai giornali: «Non oso pensare a come ci avrebbe battuti se avesse usato tutte e due le mani». Ma c’è anche un’altra data che Luisetti consegnò alla storia: il 1 gennaio del 1938. Per la prima volta un universitario mise a segno 50 punti nella vittoria fragorosa contro Duquesne disputata a Cleveland. Divenne così il primo cestista a godere di una popolarità oltre lo sport, a tal punto che, anche per la sua bella presenza, Hollywood lo assoldò nel film con Betty Grable Campus Confessions. Non ebbe molta fortuna, ma il più grande rammarico per il “primo Jordan” d’America fu quello di non essere mai approdato al professionismo: la Nba per sua sfortuna non esisteva ancora e una meningite pose fine nel 1944 alla sua brillante carriera.
Se però Luisetti fu uno dei profeti del basket moderno, sventola il tricolore anche nella rivoluzione degli anni Cinquanta firmata da Daniel “Danny” Biasone (1909-1992). Un imprenditore nato in Abruzzo, a Miglianico (Chieti), e trasferitosi con la famiglia negli Usa a 11 anni, fondatore dei Syracuse Nationals gli “antenati” degli odierni Philadelphia 76ers. Biasone fu addirittura il “salvatore” della neonata Nba finita sotto accusa per la monotonia delle partite: all’epoca, infatti, non c’era una regola che impedisse ai giocatori di tenere a lungo il possesso palla. Le partite finivano spesso con un punteggio bassissimo e chi conduceva tendeva a lunghi estenuanti passaggi solo per far scorrere il tempo e mantenere il risultato. Il pubblico si annoiava e rumoreggiava, e dalle tribune piovevano fischi. Una partita su tutte conquistò le prime pagine dell’indignazione: la sfida vinta dai Fort Wayne Pistons sui Minneapolis Lakers per 19 a 18. Il clamore per il “Boring Match”, la partita noiosa più famosa della Nba, suscitò un malcontento che avrebbe chiuso per sempre l’avventura della Lega cestistica a stelle e strisce. Ma ci pensò Biasone con un’invenzione geniale a riaprire il futuro: la regola dei 24 secondi, il tempo massimo per concludere un’azione.
Una formula non casuale ma frutto del suo ingegno: 48 minuti di gioco, cioè 2.880 secondi, diviso per il numero medio dei tiri di una partita, ossia 120. Risultato: 24. Lo “shot clock” codificato già nel 1954 fu definita come la più grande innovazione della pallacanestro. Una regola essenziale per accelerare le giocate e spingere le squadre a segnare e non a conservare il risultato. I punteggi si alzarono, il pubblicò tornò a riempire i palazzetti e, per la gioia di Biasone, i Syracuse vinsero anche il titolo nel 1955.
In tempi più recenti, prima che l’indimenticabile Kobe Bryant, ci inorgoglisse rivendicando sempre e con fierezza la sua infanzia e il suo legame con il nostro Paese, c’è stata un’altra figura leggendaria a tenere alta la bandiera italiana. James Thomas Anthony Valvano (1946-1993), detto Jim, era figlio di due emigrati lucani. Nato a New York, da Rocco Valvano e Angelina Gianturco, ha legato il suo nome all’impresa più incredibile non solo del basket americano ma come dicono negli States anche dello sport intero. Allenatore istrionico, sempre pronto alla battuta, determinato e sognatore, Jim Valvano guidò North Carolina State alla conquista del titolo universitario Ncaa del 1983. Una cavalcata sorprendente alla testa dei Wolfpack (“branco di lupi”, il soprannome del college) con la vittoria in finale contro Houston di due futuri campioni Nba: Hakeem Olajuwon e Clyde Drexler. I ragazzi del Destiny Team, come furono ribattezzati, infiammarono i media americani che per la prima volta usarono il termine “Cinderella”, Cenerentola, per definire le squadre rivelazione.
Ma l’eredità di Valvano va ben oltre questo successo epocale. Il 4 marzo del 1993, nel corso degli Espy Awards, quando già gli era stato diagnosticato un tumore in stadio terminale, pronunciò un discorso rimasto nella storia dello sport, con cui commosse tutto il Madison Square Garden: «Per me ci sono tre cose che dovremmo fare ogni giorno. La prima è ridere; si dovrebbe ridere ogni giorno. La seconda è pensare; si dovrebbe trascorrere del tempo a pensare. E la terza è emozionarsi e commuoversi fino alle lacrime; per la felicità o per la gioia. Ma pensateci: se si ride, si pensa e si piange potete dire di aver vissuto un giorno completo. Accidenti che bel giorno! E se hai trascorso sette giorni così a settimana, hai ottenuto qualcosa di speciale».
E dopo un applauso interminabile ripeté il suo motto: «Don’t give up, don’t ever give up», (Non mollare, non mollare mai).
Fu la sua massima di vita, in campo e fuori, per un uomo che come confidò sua moglie (da cui ha avuto tre figlie) ha sempre considerato la sua fede cattolica come il bene più prezioso. «Non mollare è quello che cercherò di fare ogni minuto che mi resta. Ringrazierò Dio per il giorno e il momento che ho». Valvano morirà a 47 anni il 28 aprile 1993, ma le sue parole riecheggiano ancora: «Il cancro può portarmi via tutte le mie capacità fisiche, ma non può toccare la mia mente, il mio cuore, la mia anima. E queste sono le tre cose che ci resteranno sempre».