Avvenire, 17 febbraio 2023
Manganelli in cerca di Dio
Apparse una prima volta nel 2006, le poesie di Giorgio Manganelli, ottimamente curate da Daniele Piccini, sono state da poco ristampate da Crocetti in occasione del centenario della nascita dello scrittore. (Una scelta essenziale di questi testi è apparsa anche, col titolo Un uomo pieno di morte, presso le edizioni Graphe.it di Perugia). Accompagnate da lucidi saggi di Piccini e di Federico Francucci, studiate con scrupolo filologico dallo stesso Piccini in un’appendice dedicata alle varianti autografe custodite da Lietta Manganelli, queste poesie ci aiutano a penetrare in modo, per così dire, sghembo nel complicatissimo, corrusco, straripante mondo immaginativo e linguistico del “Manga”.
Dopo una specie di preistoria (versi giovanili di taglio vagamente mitologico e postermetico, collocati dal curatore in appendice per il loro scarso valore letterario) la ricerca dello scrittore in campo poetico dal 1953 fino ai primi anni Sessanta oscilla fra il peso tremendo della sofferenza personale e nevrotiche, fibrose, grottesche strategie esorcistiche. Cosa opporre al risucchio mor-tale dell’angoscia? I «tristi sillogismi» di una ragione impugnata come arma contro il fantasma dei sentimenti o, viceversa, l’abbandono al «gesto purissimo» di una prostituta o alle lascivie dell’«ustione passionale»? Non c’è risposta all’ondeggiare tra le sconnessioni della mente e l’inconscio, tra il buio più fitto dell’anima «nera e ottusa» e il «fulmine forcuto» di una realtà incomprensibile. Forse anche l’eros non è che è una forma del nulla? Forse la sola salvezza sarebbe giungere a combaciare con la «liscia indifferenza» degli oggetti, con l’assurda geometria delle cose? O forse qualsiasi salvezza è impensabile? Sentendo di poter vivere solo «agli incroci», tra le crepe e i sussulti del caso o del caos, chi parla in questi versi non è certo neppure della propria esistenza, del proprio essere qualcuno: ma allora chi soffre e perché? A quali sponde può aggrapparsi questa voce mentre, dibattendosi, rivela la sua inconsistenza? Domande crude, vani improperi, cataloghi dell’incongruo o sfregi in serie nel tessuto goffo e fragile della vita svenano sempre più la voce: i versi annaspano come serpenti ebbri, come frantumi di «anime / maciullate»: le parole diventano via via colate, cascate, sbrodolature prive di qualsiasi misura: la scrittura automatica del surrealismo naufraga nel magma lutulento, informe della neoavanguardia. Eppure questa avventura espressiva non si esaurisce in una vacua deriva dei significanti. Attraverso il gesto reiterato dell’imprecazione o dello sberleffo al nonsenso, così come attraverso la pratica dell’insulto o dello sgambetto a tutti i tòpoi della ragione, ciò che, passo dopo passo, la lingua “poetica” (in realtà radicalmente antipoetica) di Manganelli crea è uno stile circense, una teoria di trovate clownesche o dadà amarissime e corrosive ma anche, a tratti, esilaranti. Cosa sta cercando lo scrittore quando compone versi come «i gatti uccisi leggono i giornali / a un angolo di strada» se non i sentieri della letteratura in quanto menzogna, polvere pirica, capriola, gag? Sarà proprio questa la decisiva “mossa del cavallo” nella partita di Manganelli con la morte annidata nel suo cuore: se la disperazione non potrà mai essere vinta sarà liberatorio esagerarla, dilatarla, mescolarla: la tragedia, accoppiandosi con la farsa, diventerà Hilarotragoedia, carnevale spastico, «leccornia disperativa», «favola iraconda», scena brulicante d’allegrie agoniche….
Molti hanno ritratto Manganelli come un impareggiabile illusionista, capace di far apparire di continuo tra le pieghe dei suoi cortocircuiti verbali gli spettri più rutilanti e improbabili, gli ectoplasmi o i mostri più bizzarri e puntuti. Ma forse la vera forza illusionistica di questo maestro del paradosso è di far sparire – o di mostrarci in una luce depistante, obliqua – quanto di profondo, di sacro, di metafisico si cela tra le superfici sgargianti della sua abilità retorica, sia di farci credere che le stralunate contorsioni del suo nichilismo verbale coincidano, senza residui, con un drastico rifiuto del sentimento religioso. Come ha capito benissimo Citati, Manganelli è, invece, un grande teologo, disperatamente teso a un Dio di cui ha timore e un’infinita sete, ma lo è come può esserlo un eretico o un praticante la via apofatica, la via negationis dei mistici. Benché pullulante di tutte le trasgressioni più isteriche, le metafore più turpi, le immagini più empie e beffarde, il mondo di Manganelli cerca Dio nel nulla, nel vuoto, nell’aporia: in tutto ciò che si nasconde fra le righe: nel silenzio, nell’altrove, nell’impossibile, nell’indicibile. L’enorme (e riuscitissima) menzogna dello scrittore è offrirci la sua abissale ricerca sempre e solo à rebours, negli specchi curvi ma infrangibili di una tragicommedia “infera” del linguaggio.