Avvenire, 17 febbraio 2023
La verità di Mastrocola
Paola Mastrocola ha una bellissima scrittura, che ti conduce per mano, sempre precisa sul piano formale, eppure tagliente e a tratti ruvida per le idee che porta con sé. Questo perché – tale è almeno l’impressione da lettore che la segue assiduamente da oltre vent’anni, vale a dire dall’esordio con il romanzo La gallina volante (uscito nel 2000) – c’è sempre, in ogni suo libro, una verità. E la verità può essere scomoda, talora persino urticante. Forse è proprio questo che fa di uno scrivente (come ce ne sono tanti, pubblicati dalle migliori case editrici) uno scrittore (come ce ne sono pochi): la fedeltà alla verità, e se la parola nuda e cruda spaventa potremmo aggiungere alla propria verità. In ciò Paola Mastrocola è sempre stata estremamente trasparente, ma nel suo ultimo libro, La memoria del cielo, tale qualità – letteraria e insieme esistenziale – emerge ancora più netta. Il libro racconta la storia di una bambina, Donata, nata a Torino nel 1955 da madre piemontese e padre abruzzese. Si chiama Donata perché è giunta come un dono, nel quale non si sperava più, dopo cinque anni di matrimonio tra Vincenzo e Teresa, che non poteva rassegnarsi all’idea di non avere figli.
È Donata a parlare in prima persona, rievocando le proprie vicende di bambina. Nascere è stata per lei quasi una forma di risarcimento per la madre, trattata con freddezza nella famiglia d’origine, amata dall’uomo che ha sposato eppure da lui non del tutto compresa. Vincenzo è salito dal Sud a Torino essendo entrato in polizia, ma il suo sogno è quello di lavorare alla Fiat: conseguito il diploma di ragioniere alle scuole serali, verrà assunto come impiegato, uno status sociale invidiabile nell’Italia degli anni Cinquanta, perché essere impiegato voleva dire non essere operaio. Teresa dopo le elementari è stata mandata da una sarta del suo paese ad apprendere il mestiere e da allora non ha più smesso di cucire vestiti per le “signore”. Donata bambina nota questa disparità: il padre ha un lavoro con orari fissi e, a parte gli straordinari che cerca sempre di farsi assegnare per incrementare il bilancio familiare, ha la sua dose di tempo libero; la madre, invece, che lavora in casa, non ha orari e fatica più che può, compresi i fine settimana.
L’Italia è avviata verso le magnifiche sorti del boom economico, ma le massaie (qui Teresa, tutti i sabato pomeriggio) lavano ancora il bucato a mano, comprese le ruvide lenzuola matrimoniali, e in bagno si mettono i fogli di giornale tagliati a strisce, perché la carta igienica è un lusso da riservare agli ospiti di riguardo. Il libro è ambientato in un’Italia d’altri tempi: sono passati una settantina d’anni, ma è davvero un’altra epoca, resa nella narrazione in maniera molto efficace, attraverso l’attenta registrazione delle abitudini sociali e persino dei modi di dire. Sarebbe una lettura istruttiva per gli adolescenti di oggi, che spesso non hanno idea del mondo da cui veniamo. Poi arrivano la lavatrice, il televisore, i bisogni indotti dalla società dei consumi: passare dall’affitto all’acquisto di un appartamento diventa un’ossessione per i genitori di Donata, e con essa si impone la necessità di risparmiare, di «tirare la cinghia», per mettere insieme il denaro necessario al grande passo.
Intanto Donata cresce: è una bimba intelligente e sensibile, ma anche cagionevole e proclive all’introspezione, e dunque all’isolamento. Al parco gioca con le coetanee solo per far piacere al padre. Andare in colonia, al mare o in montagna, un mese ogni estate continuerà a essere per lei un supplizio. Mentre i racconti della madre sulla propria infanzia infelice la educano alle storie, scopre la scrittura, ricopiando un sussidiario regalatole dalla madre di una signora della Torino bene che va a farsi confezionare i vestiti da Teresa, maestra in pensione che ne ha intuito le doti intellettuali. La scuola, la cultura, negata alla madre e faticosamente inseguita dal padre, diventa uno spiraglio di personale salvezza, ma anche l’inizio di un progressivo allontanamento: «Mia madre era contenta che imparassi a scrivere; non capì che stava iniziando la mia lenta fuga da lei, e che poi sarebbe diventata un fiume vorticoso e inarrestabile». «Leggere mi consolava. Lo so che è un verbo strano. Non sapevo di cosa, ma sentivo che di qualcosa dovevo essere consolata». È particolarmente felice la scelta del punto di vista della bambina come focalizzazione del racconto: tutto è rievocato a distanza di anni, ma con la capacità di rendere lo stupore, le piccole gioie e i piccoli, grandi dolori, frustrazioni, delusioni, amarezze attraverso cui inevitabilmente si cresce. Ma il libro si conclude con lo sguardo della scrittrice sui genitori, scomparsi entrambi troppo presto, senza che il loro sguardo abbia potuto posarsi sulla figlia adulta. Ed è una struggente meditazione sul mistero che padri e madri conservano agli occhi di noi figli, che pure tanto dobbiamo loro.