Avvenire, 16 febbraio 2023
Un giorno di fuoco di Beppe Fenoglio
Qualche anno fa Bianca Roagna, factotum del Centro Studi Beppe Fenoglio di Alba, mi raccontò che un collezionista di cose langhigiane, il signor Giovanni Cagnazzo, aveva scovato una cartolina davvero speciale. Imbucata a Gorzegno, era stata spedita da uno dei carabinieri che partecipò all’assedio di Gallesio, lo splendido pazzo al centro di uno dei più bei racconti di Beppe Fenoglio, Un giorno di fuoco. La cartolina, che impiegò tre giorni a giungere ad Agrigento, era stata scritta di getto, poche ore dopo gli avvenimenti. Il fatto era stato così grande che l’uomo ebbe urgenza di ragguagliare subito la famiglia: «Nel momento in cui dopo un conflitto di oltre quattro ore abbiamo liberato la società da un pericoloso malfattore, che ha pagato con la vita i suoi delitti e Dio gli usi misericordia, il mio pensiero più caro alla mamma ed a Pina, le cui preghiere sempre mi preservano da ogni male. Un abbraccio, Luigi».
Da quel tragico evento sono passati novant’anni, e sessanta ci separano dalla pubblicazione per Garzanti del primo libro postumo dello scrittore di Alba. Un giorno di fuoco fu infatti il titolo redazionalmente scelto per presentare al pubblico un volume eterogeneo dove, accanto ad alcuni “racconti del parentado”, si leggeva per la prima volta quel capolavoro che è Una questione privata e che forse avrebbe meritato, più degli altri, di suggerire il titolo per l’intero libro. Ciononostante, è indubbio che anche quella di Un giorno di fuoco è una narrazione nitida, percorsa da un’ineguagliabile tensione e sostanziata da una specialissima prosa in grado di assegnare a un fatto di cronaca la cadenza e la misura del mito. Quella del settantenne Gallesio che uccide il fratello, il nipote e il parroco, per asserragliarsi nel fienile dove fa fronte all’assedio dei carabinieri, è una guerra universale contro la “malora”, ma allo stesso tempo la “questione privata” di un contadino che fa i conti con la solitudine in cui l’ha precipitato la vita È una storia su cui i giornali dell’epoca tornarono a parlare molto, una tragedia di paese durata non un solo giorno ma quasi due settimane, dal 6 al 18 ottobre 1933; il reale protagonista fu un Gallesio, non però il Pietro fenogliano ma un Felice, il cui nome di battesimo sembra uno scherzo della sorte. Ad accendere la furia del vecchio è il risentimento verso il fratello Costanzo che gli aveva fatto un prestito mai restituito. I due passano alle mani e Costanzo viene ferito con un colpo d’arma da fuoco che lo costringe in ospedale. Felice si nasconde tra i rittani sfuggendo alla caccia dei carabinieri. Il vecchio sembra scomparso, il paese mormora e gli uomini delle forze dell’ordine riguadagnano la caserma. Poi Felice torna ai suoi campi e riprende a lavorare perché la vendemmia non è conclusa. Passano tre giorni. Al quarto c’è un secondo assalto armato alla casa in cui si è rinchiuso. Un carabiniere viene ferito, ma Felice riesce a scappare e si perde tra i boschi, mescolandosi a quella terra maledetta. Cova un incuboso risentimento che lo fa scendere in paese la domenica. Lì, tra le vie di Gorzegno, ha una casa di sua proprietà, disabitata. Si apposta alla finestra e, quando verso le tre del pomeriggio vede passare il parroco, don Giovanni Gallo, che sta andando a dare conforto a un malato, gli spara, uccidendolo. Quindi scompare di nuovo. Cosa faccia in quelle ore di folle solitudine non lo sappiamo; trascorre così altri tre giorni. È mercoledì 18 ottobre. Col fucile in mano spalanca la porta di casa del fratello, che è ancora in ospedale; lì trova il nipote Alessandro coi sei figli, prende la mira e uccide anche il ragazzo. I bambini fuggono e lui afferra una sedia e va mettersi dietro le tende col fucile appoggiato al muro. Sa che stanno per arrivare di nuovo, così quando li vede spuntare sulla strada torna a dare la parola alla doppietta e ferisce un altro paio di carabinieri. I giornalisti inviati da Torino e da Alba seguono con trepidazione gli avvenimenti: Felice è diventato “il pazzo di Gorzegno”. Tra la casa e la strada è un continuo sparare, i colpi riecheggiano di collina in collina. Lo scontro va avanti quattro ore e nuovi feriti sono trasportati all’ospedale di Alba; alla fine Gallesio è stremato e si lascia uccidere.
Quando tutto ciò avvenne, Fenoglio aveva solo undici anni; i genitori, forse gli zii di San Benedetto Belbo ne avevano parlato al piccolo Beppe, oppure il ragazzino aveva colto di straforo qualche parola lasciata poi a decantare. Così il Fenoglio adulto si risolse a scriverne, raccontando il meccanismo per cui, a ribellarsi alla malora, occorre infine avere il coraggio catartico di mollare tutto: «Quando si fanno certe cose, dopo bisogna morire. Certe cose si fanno proprio perché si è sicuri di aver dopo la forza di morire. Guai se non fosse così. Guai a Gallesio!».
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In “Un giorno di fuoco” lo scrittore morto il 18 febbraio di sessant’anni fa traspose in forma letteraria un reale fatto di cronaca