il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2023
Eroina, la maledizione della generazione degli anni 80
“La droga è un modo di vivere” scriveva William Burroughs ne La scimmia sulla schiena del 1953. Forse, più verosimilmente, un modo di morire, se è vero che l’eroina è la maledizione della generazione degli anni 80. Le immagini dell’epoca ritraggono spesso tossicomani – maglione arrotolato, laccio emostatico e siringa nel braccio – distesi senza vita sulle panchine.
Vanessa Roghi, nel suo Eroina. Dieci storie di ieri e di oggi, pubblicato di recente da Mondadori, rammenta che il drogato – reputato a suo tempo un criminale o un malato psichiatrico – è rimasto un reietto con una colpa da espiare anche con l’avvento delle comunità di recupero. Dagli antieroi di Trainspotting che si bucano nella periferia scozzese ai redenti di San Patrignano nella docu-serie Netflix SanPa, non si contano i “sommersi e i salvati” della droga che alimentano l’immaginario collettivo. Una delle parabole più celebri resta quella di Christiane F. che in Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino racconta la sua storia di minorenne costretta a prostituirsi per procurarsi le dosi.
Due romanzi appena usciti in libreria riportano in primo piano la memoria dei tanti, troppi nomi finiti incisi su una lapide per colpa dei paradisi artificiali. Lunedì mi innamoro di Enrico Fovanna, edito da Giunti, è una storia d’amicizia maschile nella Pavia universitaria dei primi anni 80. Se Giorgio, montanaro e concreto, sogna di fare il giornalista, Febo, raffinato e carismatico, si lascia fagocitare dall’eroina fino a morire di overdose. Fovanna spazza via ogni lirismo e si affida ai dettagli per mostrare l’abisso: “Quindi alzò la spada in controluce e premette appena, fino a fare uscire la prima goccia dalla cavità dell’ago… Febo gli passò la siringa… Quando le vene in cima all’avambraccio furono abbastanza gonfie, Patton vi infilò l’ago e spinse lo stantuffo… Poi lo estrasse, con un’espressione estatica, e ripassò quella cosa a Febo, che fece lo stesso.”
Una sorella di sventura è Roberta, morta di Aids nel 1995. È la figlia Giulia Scomazzon a ripercorrere i contorni della tragedia: “Ora so che mia madre ha condiviso una siringa con altre due persone, che ricordava o ha creduto di ricordare il momento esatto in cui il destino l’ha condannata a morte per una leggerezza commessa a vent’anni.” La paura ferisce come un coltello arrugginito, edito da Nottetempo, è per l’autrice una dolorosa presa di coscienza nell’accettare che colei che l’ha messa al mondo è stata una donna nella quale le identità di operaia e consumatrice di droga si sono sovrapposte: “È così facile pensare a chi usa l’eroina come a un essere umano improduttivo, un peso per la società e per i propri affetti, che costa fatica persino a me immaginare una lavoratrice onesta che si buca”.
Una medesima genealogia femminile – nonna, figlia e nipote – si snoda in Tutti dormono nella valle che Ginevra Lamberti ha pubblicato lo scorso anno per Marsilio. Costanza, la donna di mezzo, vive la sua giovinezza tra autostop e concerti rock. Si innamora di Claudio, eroinomane, e lo segue fin dentro quella comunità laica (sotto mentite spoglie si riconosce San Patrignano) che pur con metodi discutibili ha salvato innumerevoli esistenze dal baratro. È in comunità che nasce la loro figlia Gaia che, fuori dalla trasfigurazione romanzesca, non è che la stessa autrice Ginevra.
Anche Andrea Delogu sconta la stessa esperienza con due genitori ex tossicodipendenti che provano a rifarsi una vita in quella stessa comunità: “Per me era normale vivere in mezzo a duemila persone”. Ne La collina (Fandango, 2014) la famiglia però scappa dal quel capo Riccardo (alias Muccioli) che è “un Dio che puoi vedere, toccare” ma che alla fine si rivela un dio imperfetto e spietato. “L’eroina fu un sogno, una consolazione materna. Niente divenne migliore, tutto si fece più sopportabile” si legge ne Gli anni al contrario di Nadia Terranova (Einaudi Stile Libero, 2015), eco di un doloroso trascorso della stessa autrice siciliana, il cui padre è morto di Aids nel 1989.
Ecco allora che si può risalire alle radici di un male tanto contagioso se, come si legge in 33 di Marco Ubertini (Sperling & Kupfer, 2020) la droga è stata la chimera di chi ha creduto di potersi sottrarre alle leggi del mondo: “Fare una pera di eroina a una ragazza è la cosa più romantica che ho mai fatto nella mia vita. O almeno, così mi sembrava quando avevo sedici anni. C’era della magia in quel gesto. Un senso di comunione, di appartenenza”.