il Giornale, 16 febbraio 2023
Il ginecologo di Simenon
Non appena ci si addentra in un Simenon Jules-free, ovvero in un romanzo immune dal virus positivo della ragionevolezza, dell’umanità e dell’intuito incarnati nel commissario Jules Maigret, si ha la sensazione di essere finiti in un ginepraio dove tutto è irragionevole, disumano e spesso anche malato. E si sospetta che il crimine in questione possa essere una omessa buona azione, un omesso controllo, insomma un omissis, la soppressione di qualcosa o il semplice tentativo di sopprimerla, di strapparsela dalla schiena della memoria.
Ad esempio, perché il professor Jean Chabot, illustre medico vicino alla soglia dei cinquant’anni che tutti idolatrano e al quale si rivolgono per ottenere la soluzione ai loro problemi, a un certo punto vede negli altri dei potenziali testimoni d’accusa coalizzati a suo danno? Ovunque, nel suo ambulatorio, nella sua clinica, dalla sua cattedra, tutto gli appare loro, e uno strumento per fargli del male. Perché? Non basta la freddezza dei rapporti con la moglie e con i tre figli che spingono per andarsene a vivere da soli; non basta la liaison routinaria con la segretaria-amante-sorvegliante; non basta la certezza di essere odiato dalla madre semplicemente perché l’anziana vedova disprezza i ricchi. Temere di essere giudicati (anche in tribunale...), denota insicurezza o rimorso. Entrambi, per Chabot, roso da un tarlo che sbriciola le fondamenta del suo palazzo costruito su tre «f»: franchi, fama e femmine. Le femmine sono quelle che si fidano ciecamente di lui quando stanno per partorire e consegnano due o più vite al celebre ginecologo.
Unica eccezione, una tale Emma: rosea, polposa, bambinesca, maliziosetta. Ma soprattutto, innocente. L’orsacchiotto (Adelphi, pagg. 147, euro 18, traduzione di Laura Frausin Guarino), come la chiama nei suoi pensieri Chabot, è lei, la ventenne provinciale dall’aspetto alsaziano arrivata a Parigi per lavorare come inserviente alla Clinique des Tilleuls. Durante una delle tante notti in clinica, scandite da doglie, contrazioni e veri o falsi allarmi, Chabot apre una porta a caso e se la trova davanti, piazzata sul letto con le gambe all’aria come l’orsacchiotto di peluche che ancora sonnecchia nella camera del suo terzogenito liceale. Dorme o finge? Poco cambia, pare inanimata e inerme proprio come un orsacchiotto, dunque approfittarne è facile, e all’uomo serve come una boccata d’aria fresca o come un bicchiere di cognac.
A dire il vero il cognac per Chabot viene dopo, mesi dopo, e in quantità industriali. Dopo, cioè, che la poveretta è stata ripescata nella Senna, in cui si era gettata insieme alla creatura che portava in grembo. E oltre che al cognac il professore si affida alla pistola che non ha mai usato, acquistata anni prima a seguito di un tentativo di rapina cui era sfuggito con la moglie per questione di centimetri. La carezza, quella pistola, la soppesa, qualche volta se la punta alla tempia guardandosi allo specchio, per vedere che effetto farebbe... E la tiene sempre in tasca, quando esce. Infatti un tale, giovane come Emma e anch’egli dai tratti alsaziani (lo ha visto dalla finestra della clinica), da un po’ lascia biglietti minacciosi sull’auto di Chabot: «Io ti ucciderò». Un fratello della sventurata? Oppure il fidanzato?
In breve lo scenario cambia. Si passa della tre «f» alle tre «a»: arma, assassinio e autodistruzione. Ma non arrovellatevi nel cercare, dentro il corpo dilaniato da dubbi, sospetti e silenzi dell’Orsacchiotto, qualcosa di razionale. Perché non siamo in un giallo di Agatha Christie e nemmeno in un caso affidato al commissario Maigret. Siamo in un roman dur di George Simenon, con tutto ciò che ne consegue.