il Giornale, 16 febbraio 2023
Ritrato di Liala
Liala? Che strano nome, pensai, dopo aver conosciuto una ragazza italoaustraliana e dopo aver fatto le debite presentazioni. La ragazza in questione si affrettò a dirmi che era il nome di una famosa scrittrice di romanzi rosa. Soltanto in un secondo momento scoprii che Liala era italianissima. Quando mi è passato per la mani Su Liala (Nuova Editrice Berti, pagg. 80, euro 12) di Mariolina Bertini, l’intrigo è stato immediato.
L’autrice, illustre studiosa di letteratura francese, ha raccolto in questo libro piccolo quanto delizioso alcuni brevi saggi su Liala, scritti con passione ed eleganza. Chi sia interessato a saperne di più sulla biografia di quella nobildonna che fece breccia nel cuore di milioni di lettori dovrà cercare informazioni online, ma qualcosa di sostanziale lo si trova anche tra le righe di Su Liala. Per esempio, la sua natura «dannunziana». Come ci ha detto Mariolina Bertini, «Liala ha raccontato come il suo editore, Arnoldo Mondadori, l’avesse accompagnata al Vittoriale a conoscere Gabriele d’Annunzio il 13 febbraio 1931. Era imminente la pubblicazione del primo romanzo di Liala, Signorsì, ambientato nel mondo degli aviatori. D’Annunzio fu galante con la giovane scrittrice, ne lodò gli occhi – cattivi secondo lui soltanto in apparenza – e i bei capelli fulvi. Al momento di dedicarle una fotografia, invece di scrivere A Liana (vero nome della ragazza), scrisse, A Liala, compagna d’ali e di insolenze. Le spiegò poi che aveva messo un’ala nel suo nome, in omaggio alla sua passione per l’aviazione».
Ambienti nobiliari e alte sfere militari fanno spesso da cornice alle storie di Liala, in un mondo ben lontano da quello della sua lettrice media. Che sia stato questo il segreto del suo successo? «Alcuni romanzi, come Il vento inclina le fiammelle – prosegue l’autrice – propongono versioni moderne della fiaba di Cenerentola. La protagonista, di origini umili, grazie all’amore realizza un sogno di ascesa sociale. Ma a volte in Liala gli ambienti aristocratici sono descritti come arretrati e soffocanti, per esempio ne La meravigliosa infedele. E non sempre l’ascesa sociale ha risultati positivi: la protagonista di Le briglie d’oro, di cui si innamora un ricco produttore cinematografico, è infelicissima nel mondo altoborghese di cui non si sente all’altezza. Ma certo gli ambienti sontuosi di molti dei suoi romanzi consentono a Liala di sbizzarrirsi in descrizioni fantasmagoriche».
Chissà se un confronto tra Liala e Barbara Cartland, regina del romanzo rosa internazionale, è mai stato possibile? «Il fenomeno Liala non ha una dimensione internazionale: è stata molto letta, ma soltanto in Italia. Rispetto a quelli della Cartland, i romanzi di Liala sono molto più ricchi di descrizioni. La fantasia di Liala è più sbrigliata e originale di quella di tutte le altre scrittrici di rosa. Liala inventa abiti da sera in lamé da portare con pellicce di volpe azzurra o di visone bianco. Nei romanzi della Cartland e di Delly, come negli Harmony, quel che fa sognare la lettrice, quel che fa scattare la molla dell’identificazione è sempre la trama. In Liala, invece, gli accessori – abiti, scarpe, gioielli, cinture – sono importanti quanto la trama, alimentano sogni e desideri simili a quelli di madame Bovary quando legge in provincia le riviste di moda parigine».
Ma ha ancora senso leggere Liala? «Io penso che chi ama, per esempio, i grandi melodrammi cinematografici di Douglas Sirk può ritrovare un mondo analogo nella produzione romanzesca di Liala: un mondo in technicolor, un mondo di bellezze esagerate alla Ava Gardner e di violente passioni. Per apprezzare oggi l’estetica kitsch e datata di Liala bisogna avere gusti un po’ perversi; la si può amare come Paolo Poli amava Carolina Invernizio o come Fassbinder amava i più trucidi melodrammi hollywoodiani».
Cosa avrà spinto una studiosa come Mariolina Bertini, appassionata di Balzac e Proust, ad accostarsi alla prosa e alle storie di Liala? «Negli anni della mia formazione, i primi anni Settanta, c’erano fior di intellettuali, di grandi accademici che si interessavano a quella che allora si chiamava paraletteratura, letteratura d’evasione comprendente anche il rosa. Penso a Umberto Eco, a Giuseppe Petronio e a Oreste Del Buono. Nel contesto della teoria letteraria di allora, qualsiasi narrazione poteva essere un oggetto di studio interessante per i suoi meccanismi interni, per vedere come funzionava. Era di gran moda anche la sociologia della letteratura, che studiava il rapporto tra la paraletteratura e il suo pubblico, i modelli di comportamento, le figure mitiche come James Bond. Dunque, quando nel 1979 ho avuto voglia di scrivere su Liala, non mi sono sentita in imbarazzo, anche se ero più competente su Proust e stavo lavorando sulla Recherche. Va detto, però, che io Liala la andavo leggendo da una decina d’anni con divertimento e con passione, più come le sue lettrici ingenue che come Umberto Eco».