La Lettura, 12 febbraio 2023
Sulla "Crocifissione" di Masaccio (e sulla sua nuova cornice)
Anni fa, nella Reggia di Capodimonte, davanti a questa stessa tavola, Sylvain Bellenger aveva sperimentato cosa fosse davvero la «sindrome di Stendhal», quella sensazione di malessere diffuso, fisico, che può prendere davanti a una qualche straordinaria bellezza. Dopo quella visione l’attuale direttore proprio di Capodimonte avrebbe così deciso di abbandonare l’insegnamento della filosofia e di dedicarsi alla storia dell’arte.
Un quadro, dunque, a cui Bellenger è molto affezionato, ma soprattutto un capolavoro assoluto della storia dell’arte (davanti al quale la sindrome di Stendhal è di fatto scontata): la Crocifissione è il simbolo travolgente della rivoluzione di Masaccio, una piccola tavola (83 per 63 centimetri) dipinta a tempera, capace di emozionare. Un’opera che parla, oltre il tempo, di un dramma universale, la morte, e del dolore che essa provoca in chi rimane. L’opera è quel che resta del polittico che Masaccio aveva realizzato nel 1426 per la Cappella di San Giuliano in Santa Maria del Carmine a Pisa e ricorda ancora lo stile delle miniature gotiche. Tuttavia, al tempo stesso, ribalta con il suo impianto geometrico la visione spirituale del mondo medievale e riduce la scena all’essenziale (i personaggi principali e un lembo di terra a simboleggiare il Golgota) perché niente deve distrarre dall’evento.
Dal 22 febbraio al 7 maggio, la Crocifissione lascia il Museo di Capodimonte a Napoli che ha avviato un complesso lavoro di recupero e restauro delle proprie stanze rimanendo però, come dice il direttore, sempre «aperto per lavori»: l’opera affronta una trasferta al Diocesano Carlo Maria Martini di Milano e per l’occasione ritrova nuovamente la «sua» cornice.
Non sarà la prima cornice, quella di gusto eclettico della prima esposizione a Capodimonte; né sarà il successivo listello dorato dell’allestimento del 1957, poi eliminato negli anni Novanta per seguire la linea di allestimento razionalista allora molto in voga. Stavolta si tratterà di una cornice di area toscana, databile agli inizi del Cinquecento, con sagoma a cassetta e una fascia interna decorata in blu e rosso alternato, con motivi a racemi, secondo un repertorio trecentesco ancora in voga nel secolo successivo.
La mostra milanese, fortemente voluta dalla direttrice del Diocesano, Nadia Righi, è un modo per celebrare la collezione dei fondi oro (Bernardo Daddi, Nardo di Cione, Antonio Veneziano, Gherardo Starnina, Sano di Pietro) donata al museo da Alberto Crespi (1923-2022). Ma anche (più in generale) un momento di riflessione sul ruolo della cornice nella storia dell’arte: «il mobile più mobile», oggetto d’arte spesso sostituito e subordinato al gusto, elemento essenziale della mediazione dello sguardo tra ambiente e opera, capace di generare isolamento e concentrazione, su cui si è tornato di recente a riflettere con campagne di reframing, la restituzione di una cornice a opere che l’hanno perduta, come accade ormai abitualmente nei musei statunitensi.
«La cornice — spiega Bellenger a “la Lettura” — celebra il passaggio di un’opera come la Crocifissione da una dimensione sacrale e spirituale, quella della cappella per cui era stata realizzata, a una artistica. Quando Masaccio realizza il polittico, proprio come avrebbe fatto più tardi Caravaggio con le tele per San Luigi dei Francesi, lo fa sapendo benissimo che il polittico non sarà sempre visibile, ma che vivrà lunghi momenti al buio, lontano dagli sguardi, accentuando appunto la sua aura sacra. In un museo, invece, tutto resta sempre “allo scoperto”, con il visitatore che può scrutare le opere senza interruzioni e con l’occhio dello storico dell’arte. La cornice serve proprio a focalizzare l’attenzione del visitatore sull’opera, rendendola in qualche modo ancora di più universale».
La cornice si ripropone così come elemento necessario per attirare l’attenzione dell’osservatore sulle figure che si stagliano sul fondo oro della Crocifissione: il Cristo dal collo incassato nelle spalle; la Vergine incappucciata, le mani contorte dal dolore; il giovane San Giovanni sconvolto dallo strazio; l’imponente Maddalena bionda (peraltro aggiunta da Masaccio solo in un secondo tempo) con il mantello rosso arancione, le braccia aperte al cielo che allo stesso tempo evocano la tragedia antica e anticipano la body art. Una potenza che aveva spinto il direttore d’orchestra Riccardo Muti a sceglierla come opera unica per la mostra Carta bianca e, successivamente, ad associarla alle Sette ultime parole di Cristo sulla croce di Franz Joseph Haydn.
«Trovare la cornice per Masaccio — racconta con orgoglio Enrico Ceci, l’antiquario modenese specialista di cornici antiche dal XVI al XVIII secolo — è stato l’impegno più difficile che abbia mai affrontato, più ancora di rintracciarne una per la Madonna dei Fusi di Leonardo o per Caravaggio, autori per i quali si scelgono sempre cornici molto scure. È stata una ricerca lunga e pericolosa. Perché abbiamo scelto questa? Perché era praticamente coeva, inizi del Cinquecento con reminescenze trecentesche, veniva dal medesimo ambito toscano, era semplice. Ma a farcela scegliere, dopo un anno di ricerca, sono stati i colori: era dorata come la Crocifissione ma soprattutto aveva tracce di azzurro sui lati e di rosso negli angoli. E l’oro, l’azzurro e il rosso sono i colori della Crocifissione».
Una cornice, dunque, praticamente perfetta: «Ho visto le cornici degli altri frammenti superstiti del polittico, tutti incorniciati tranne quelli italiani di Capodimonte e del Museo Nazionale di Pisa — conclude Bellenger — ma sono tutte troppo pesanti, troppo lontane dallo stile di Masaccio. Posso dire che la nostra è davvero perfetta». Così perfetta che, terminata la mostra al Diocesano di Milano, la Crocifissione di Masaccio tornerà definitivamente a Napoli con la sua «nuova» cornice. Non senza essere però passata prima da Parigi, dal Louvre, dove dal 7 giugno all’8 gennaio 2024, sarà una dei capolavori della mostra Naples à Paris. Le Louvre invite le musée de Capodimonte. Cornice compresa.