la Repubblica, 15 febbraio 2023
Lucio Battisti, nato 80 anni fa
Cosa ho fatto più di ogni altra cosa nei miei pomeriggi da ragazzo? Sono stato nella mia camera ad ascoltare i dischi di Lucio Battisti. Da solo, con amici, con fidanzate. Ho ascoltato anche tanta altra musica, ma soprattutto Lucio Battisti. Semplicemente, conosco tutte le canzoni a memoria (tranne alcune degli ultimi album che Panella ha volontariamente reso ostico mandare a memoria); ho pensato mille volte al significato di ognuna, steso sul letto o seduto a terra. Ho immaginato un uomo davanti alla porta di notte, una donna che arriva inaspettata, un altro che guida a fari spenti nella notte — ma non si può cominciare a citare le canzonidi Battisti perché non si finisce più. Per il fatto che quello che ho fatto io lo hanno fatto alcune generazioni di italiani. E che di canzoni preferite ce ne sono troppe, sempre, per tutti — tanto che ci si trova d’accordo sempre, alla fine.
E poi? Ho smesso di farlo? No. Non ho mai smesso. Né ho mai smesso di considerarlo un mito, anche da adulto. Lui ora non c’è più da molti anni; ma fino all’ultimo giorno della sua vita, sono corso in edicola a vedere una foto rubata perché mi avevano detto che era su un settimanale scandalistico. Di solito era sfocata, e la didascalia diceva che era ingrassato. Come se ingrassare fosse problematico per la creatività di un genio; invece al limite era il contrario.
Battisti si era sottratto a tutti, e io lo trovavo non solo comprensibile, ma epico. Trovavo epica la sua normalità. Eppure poi finivo per fare quello che facevano gli altri: volevo sapere di più. E volevo sapere proprio questo: com’è la vita normale di un genio. Vorrei ancora che tutti quelli che vivevano con lui raccontassero cosa faceva, cosa mangiava, cosa guardava alla tv, dove camminava. Avrei voluto esserci lì dove non potevamo esserci: a quel pranzo che racconta Venditti, sulla Nomentana, con lui, De Gregori, Battisti e Dalla. O quando ha annunciato ai suoi musicisti il ritiro. Quando cantava per la prima volta le canzoni che stava componendo. Quando si svegliava la mattina e organizzava la giornata. Come evitava la curiosità del mondo. Se guardava le partite, se giocava a carte, se cucinava, quali articoli dei giornali leggeva, a chi telefonava, come festeggiava il compleanno. E poi, ancora di più: se spingeva un carrello sottobraccio a qualcuno, a parlar di surgelati rincarati; se viaggiando evitava le buche più dure; se a volte diventava antipatico, ma sempre meglio che ipocrita.
Di Battisti ormai, non ci manca niente. Ci siamo abituati al fatto che non c’è più, e che tutte le sue canzoni sono qui nella testa, tutte, non ne abbiamo lasciata per strada nemmeno una. Ci manca solo quel racconto: la vita quotidiana di una persona che aveva deciso di vivere una vita normale senza mai smettere di essere un musicista geniale. (È il libro che sogno di scrivere da anni, su di lui: La vita quotidiana di un genio) Il tempo con Battisti non esiste più. È solo diviso in due, tra Battisti- Mogol e Battisti-Panella. Per il resto non contano più le date, perché le canzoni appartengono a molte generazioni, e il suono di quella musica è talmente vivo, attuale, che non è più collocabile in un periodo. Però c’è una data nella musica leggera che è imprescindibile, in cui è cambiato tutto.
Dicembre 1970.
Battisti c’era già da qualche anno; aveva già esordito come autore, come cantante, aveva scritto canzoni di successo per altri e poi le aveva incise lui. Scriveva con Mogol già da un po’. Ma poi in quel Natale esce il disco che si intitola Emozioni. E ci sono in quel disco anche Fiori rosa, fiori di pesco, 7 e 40, Mi ritorni in mente, Dieci ragazze, Acqua azzurra, acqua chiara, Non è Francesca. E non sono tutte. Alcune di queste canzoni erano già state 45 giri primi in classifica, e altre lo saranno (in quegli anni i singoli contavano molto più degli album, come sta succedendo di nuovo adesso); quindi da quell’anno davvero è cambiato tutto. La musica italiana si è trovata all’improvviso davanti a una modernità, a un suono originale che non era concepibile fino a pochi mesi prima.
E poi c’è una data imprescindibile per me (chi non ha una data segnata da una canzone di Battisti?). Quando al mio compleanno, dodici anni, mi hanno regalato La batteria, il contrabbasso, eccetera (quell’eccetera, che meraviglia nel ’76). Lucio Battisti che sulla copertina mi corre incontro in tuta, calpestando una pozzanghera di fango che si alza fino alla sua bocca aperta, per tutta la foto. Io che ballo con una ragazza più grande su Ancora tu, e penso in quel momento che sono diventato adulto, e poi forse non lo penserò (e non lo sarò) più per anni. E quel disco sul piatto per mesi. E infine l’ossessione per quello e tutti gli altri dischi; e io che tre o quattro anni dopo continuo a passare i pomeriggi ascoltandolo e conosco a memoria tutte le parole di tutte le canzoni di Battisti, e ancora oggi è così, e mi chiedo cosa succede nel cervello di una persona per non dimenticare mai più né le canzoni né quel momento di Ancora tu e Battisti con quel suo falsetto inconfondibile che dice «non lo so cosa tu vuoi sapere, nessuna no, ho solo ripreso a fumare». La cosa più importante (e non credo solo per me, perché i fatti ha senso raccontarli con la speranza che siano esperienza di tanti), è che Lucio Battisti, quando ero ragazzo, mi ha reso una persona libera. E libera per sempre. Il fatto stesso di passare i pomeriggi ad ascoltare i suoi dischi, alla fine degli anni Settanta, mi ha liberato dai condizionamenti ideologici dentro i quali ero finito. Ascoltavo Battisti e intanto intorno mi dicevano che non si doveva ascoltarlo. Ma io mi chiedevo perché, vedevo che in tutti gli altri mondi si ascoltava e come, mi estasiavo e cercavo di comprendere le storie e i testi, e mi ripetevo: perché. E per questo, continuavo, e me ne fottevo. Ascoltavo anche altri cantanti che si potevano ascoltare, intanto, ma non avevo nessuna intenzione di cedere sul mito della mia giovinezza. In questo modo, quelle canzoni mi hanno reso immune dalle rigidità, dalle ideologie, dalla purezza, dalla nettezza dei pensieri e delle parole; mi hanno difeso dalla pressione della comunità, che è sempre così potente, e mi hanno reso individuo; proprio negli anni in cui, in provincia soprattutto, stai crescendo e l’unico riparo alla paura del mondo sono gli altri, è far parte di qualcosa; io tornavo a casa dopo la scuola e prima di uscire di nuovo con gli altri, ascoltavo i dischi di Battisti. In seguito, ho sostituito Battisti con lo scrivere, ed era lo stesso gesto solitario, individuale e al riparo dalla comunità che mi diceva cosa fare. E io facevo tutto quello che mi diceva la comunità, tranne ascoltare Battisti prima e scrivere racconti dopo.
Non c’era un altro che potevo scegliere per diventare individuo. Nessun altro poteva aiutarmi quanto lui. Perché Battisti era individuo, Mogol era individuo, e in seguito Pasquale Panella sarebbe stato individuo. Battisti era geniale, potente, grande; e questo era più forte di tutto il resto. E a questa grandezza mi aggrappavo per difendere una specie di nebbiosa autonomia di pensiero che mi sembrava necessaria.
La grandezza di Lucio Battisti sta nella capacità di esprimere il proprio talento, per lunga parte della sua esistenza, dentro una vita normale. Invisibile. È questo il valore che ha avuto la sua scelta. Di solito, e in modo un po’ ingenuo, all’artista è associata una estrosità, una follia, una deviazione dalla vita di tutti gli altri. Battisti invece, per vari motivi che avevano a che fare anche con l’esibizione in pubblico, ma soprattutto con la voglia di sottrarsi allo sguardo del mondo, ha affermato la capacità di vivere una vita semplice, e intanto continuare a studiare, comporre, tenere altissimo il livello del proprio talento.
La sparizione dalla scena pubblica non è un valore in sé; né è la scelta che fece che lo ha reso migliore degli altri (così come non è la scelta di sparire che ha reso Mina migliore degli altri); ma ha dimostrato una possibilità, e cioè quella di poter separare la persona e il musicista, l’individuo e la sua opera. Senz’altro se l’è potuto permettere, perché quando è sparito era già un mito; ma nessuno gli assicurava che quella scelta gli avrebbe consentito sia di conservare la grandezza davanti al mondo, sia — questione più importante — di continuare a scrivere canzoni bellissime e amate. E invece è successo, con implacabile continuità.
Tutto questo ha avuto molto più tardi un punto di rottura nel momento della separazione da Mogol, quando aveva composto ancora due album meravigliosi: Una donna per amico, Una giornata uggiosa; due album con sonorità che ancora adesso sono sbalorditive. Poi ha dovuto fare una scelta, senza Mogol. Cosa fare, come continuare. A quel punto ha espresso la sua libertà in modo definitivo: ha prima fatto un disco con i testi di sua moglie (che si è firmata Velezia); e poi ha affrontato un gioco serissimo nel costruire Don Giovanni, il primo disco con Panella, quello secondo me insuperato dalla produzione successiva. In cui, con sonorità altrettanto sbalorditive, permetteva al suo autore dei testi di prendersi gioco di Battisti- Mogol, ma come un vero poeta futurista, e non lesivo, ma dialogante: «Non penso quindi tu sei», «l’artista non sono io, sono il suo fumista ». Poi, sia Battisti sia Panella hanno abbandonato la parodia come genere letterario molto serio, e sono andati, in musica e parole, in una concezione della complessità che ha fatto sdilinquire molti, ha fatto raffreddare altri, ha messo in competizione due Battisti, quello di prima e quello di dopo. Ma Don Giovanni no, Don Giovanni invece dialogava, era un passaggio colto e coinvolgente. De Gregori disse che nessun musicista italiano avrebbe più potuto comporre prescindendo da questo disco.
Vale la pena ancora mettersi a fare quella differenza? Adesso, ormai, per fortuna, no. Gli ultimi dischi di Battisti sono una dimostrazione definitiva di libertà (che prima già c’era), sono ancora ricerca e sperimentazione musicale (che ha fatto per tutta la vita).
Di solito, quando appare un artista grande, che opera un cambiamento, succede anche che arrivi poi un altro artista a emularlo parodiandolo, a cercare di demolirlo ma con altrettanta genialità. Prima uno, poi l’altro. Sono due diversi a fare questo; ma la particolarità di Battisti è che ha racchiuso i due atti in un solo artista. Ecco cosa ha fatto Lucio Battisti: è arrivato e ha cambiato tutto; ha scritto la canzone perfetta della musica italiana, con Mogol; e poi l’ha fatta a pezzi con Panella.
E c’è un motivo: Battisti è stato uno dei pochi che ha sfruttato la sicurezza del successo fino in fondo. Più si è sentito forte, e più ha osato. Forse è proprio quello che ci serve ricordare, per non lasciar passare la passione per le sue canzoni soltanto a uso dei nostri amori e dei nostri ricordi.