il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2023
Intervista a Dimitris Papaioannou
“A me interessa la guerra interiore, l’energia criminale che si sprigiona in ogni relazione”: Dimitris Papaioannou è un artista; può felicemente eludere le domande dei cronisti su Putin e i soldati morti per riflettere su se stesso, sulla propria sensibilità, sul proprio lavoro.
Danzatore, coreografo, regista e pittore – già curatore della cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Atene, vincitore dell’European Theater Prize e creatore di spettacoli internazionalmente acclamati – Papaioannou torna a Roma, all’Argentina, con Ink – Play for two, in una nuova versione rispetto all’originale del 2020, blasonato con l’Ubu. In scena il maestro greco (classe 1964) è “l’uomo vestito”, accompagnato dall’“uomo nudo” Šuka Horn (1997): “Uno è giovane, l’altro non più; uno entra nella vita, l’altro sta uscendoci. Tra loro c’è tensione: il nuovo cerca di imparare dal vecchio, a costo di ammazzarlo; l’anziano è fonte di ispirazione e alimento, al prezzo di divorare l’altro”. Tra il parricidio di Edipo e l’infanticidio di Crono, questa è “una vecchia storia di successione”. L’eredità, il rapporto tra padre e figlio, allievo e maestro, o la passione tra amanti: sono i fili della trama muta di Ink. Un gioco, un ballo a due che “è conflitto e distruzione, rincorrendo il sogno impossibile di unità, fusione e amore con l’altro. La relazione è un campo di battaglia in cui si conoscono pochi momenti di pace: i conflitti interiori sono difficili da sedare. È forse più facile fermare le guerre là fuori. Me lo auguro”.
Ink è “nato come Primal Matter durante una crisi”: allora era socio-economica, ora è socio-sanitaria. “La maggior parte dei miei colleghi ha sofferto molto il default della Grecia, così come il Covid. Io non tanto: ero già un artista affermato, privilegiato. Però ho sperimentato la mia fase più intima, mi sono reincarnato, tornando in un piccolo studio a lavorare, con pochi oggetti, pochi performer. Alla fine, considero questi spettacoli, nati e fatti con poco, i miei lavori più forti… E oggi posso affermare che, sì, il mio Paese sta meglio; Atene è piena di vita”. Forte della sapienza ancestrale della sua terra, a chi gli chiede il senso del “mito oggi”, il regista replica che “un archetipo non ha età: non è antico né moderno, né di ieri né di oggi”. Come quelle “storie che non avvennero mai, ma sono sempre”, scrisse Sallustio. “Il mito è fondamentale anche per costruire uno spettacolo senza parole”, agganciando il pubblico in modo istintivo, irrazionale, pre-verbale. “Io lavoro nel caos: le immagini le trovo durante il percorso; le incontro, ma non le inseguo razionalmente. Il corpo è sempre alla base della creazione: è il burattinaio di se stesso”.
L’acqua è il terzo personaggio in scena, “origine della vita e libido, forza che tutto trascina con sé. Lo sforzo dell’uomo è quello di imbrigliare il flusso: vuole domarlo e scolpirlo. Invano”. Il quarto protagonista è infine il polpo: Ink è infatti l’inchiostro, il nero di seppia, “sperma nero: qui noi trasformiamo con un gesto alchemico qualcosa di carnale – il liquido – in qualcosa di spirituale – l’inchiostro con cui si scrive e dipinge”.
L’artista è “ossessionato dalla bellezza del bianco e nero”. Ama il cinema horror e soprattutto Fellini (“Mi espande l’anima, mi rallegra”), la Grecia classica e il Rinascimento italiano. “Ma non saprei dire esattamente perché. Non mi interessa spiegare o intellettualizzare, mi limito a ‘questo mi piace’, ‘questo non mi piace’”. Il perché, o il senso, lo lascia ai critici teatrali.