il Giornale, 14 febbraio 2023
August Strindberg, lo sconfitto
Nella produzione di August Strindberg il materiale direttamente o indirettamente autobiografico inizia a spalmarsi con l’avvicinarsi degli anta e prosegue fin quasi alla cosiddetta «faida» che lo allontanò dalla sua Svezia, sentita sempre meno «sua». Un ventennio che parte da Il figlio della serva e prosegue con Tempo di fermenti, L’arringa di un pazzo, Inferno, Leggende, Diario occulto, Giacobbe lotta e... quella che potremmo chiamare trilogia degli sconfitti. Vale a dire l’anonimo narrante in prima persona che torna in patria e si ritrova Solo; l’altrettanto anonimo conservatore di museo che si approssima alla morte in La festa del coronamento; l’avvocato della propria causa persa di Il capro espiatorio, additato come tale dall’opinione pubblica e tutto sommato orgoglioso di esserlo. È l’unico dei tre a uscire dall’anonimato: è Edvard Libotz. E, dovendo prendere la rincorsa per andare incontro al dissolvimento impostogli dal proprio ruolo, è più giovane degli altri due, fra i trenta e i quaranta.
Nei tre romanzi la sconfitta non rischia mai di essere una via di fuga, al contrario, appare come il prezzo da pagare per una rinascita. Il pessimista, misogino, misantropo, nichilista, apocalittico Strindberg qui addita un orizzonte salvifico. In Solo così medita il protagonista: «Questa è infine la solitudine: avvolgersi nella seta dell’anima, farsi crisalide e attendere la metamorfosi, che non può mancare. Si vive intanto delle proprie esperienze e, telepaticamente, si vive la vita altrui. La morte e la resurrezione; una nuova educazione per un nuovo ignoto». In La festa del coronamento (o La lampada verde), così il conservatore intravede un modo per conservarsi: «Con la disintegrazione dell’io seguì anche la scomparsa dell’egoismo, e cominciò a fluire, afferrandosi a quel che gli era più vicino, all’infermiera e al dottore, s’interessava a loro, alla loro salute, e con veri movimenti ameboidi dell’anima cacciò fuori nuovi apparenti piedini, s’aggrappò ai loro pensieri e sentimenti come per tenersi sulla terraferma». In Il capro espiatorio, Libotz, dopo aver varcato il dazio della città, spernacchiato da due tizi in carrozza, si prepara a compiere la sua missione: «Il reietto aveva una sua consapevolezza di quel reggere l’odio degli altri, la cattiveria, l’infamia, che gli inoculavano. Forse era una cavia, nel cui corpo dalla malattia stessa si elaborava un vaccino. Fintanto che non rispondeva all’odio con l’odio era inattaccabile, ma appena si lasciava infettare avvertiva il veleno. Per sgombrare la mente da tanta amarezza, si ripeteva brani dalla Bibbia, quelli che ricordava in maniera particolare, che agivano sul suo animo fanciullesco con la forza accumulata nei millenni».
Ecco, Il capro espiatorio (proposto ora da Carbonio editore, come Solo e La festa del coronamento rispettivamente due e un anno fa, a cura di Franco Perrelli, pagg. 162, euro 15) ci propone un Giobbe con soltanto qualche moto interiore di stizza, e anche un Idiota meno puro del principe Lev Nikolàevic Mykin di Dostoevskij, come nota Perrelli nell’introduzione, con una «accentuata oscillazione fra queste polarità, ovvero fra santità e tragicomico velleitarismo, con un tendenziale prevalere se mai del secondo sulla prima». Dei tre sconfitti strindberghiani, Libotz è, allo stesso tempo, il più terreno e il più vicino a confrontarsi con il divino. E anche il più prossimo allo stesso Strindberg. Germogliato con l’innesto di un Inserto, poi espunto, a La festa del coronamento nel 1906, Il capro espiatorio corrisponde perfettamente alla visione dell’autore, espressa in una lettera di due anni prima alla terza moglie, Harriet Bosse: «Mia missione è informare gli uomini, da un lato, che non vivono nel migliore dei mondi, dall’altro, che ce n’è uno migliore che ci attende. Ecco il vangelo della speranza che io predico. E come ringraziamento, gli stolti mi schiaffeggiano». Più autobiografico di così...
Edvard Libotz è infatti fin dall’inizio, dal suo arrivo nella sonnacchiosa città svedese insieme protetta e soffocata dalle montagne, il bersaglio preferito dagli «stolti», dai pettegoli, dai malpensanti, dagli invidiosi. L’unico, sulle prime, a tendergli una mano è Askanius, padrone di un dignitoso locale. Niente di che, uno spuntino a credito con cui si guadagna la fiducia dell’avvocato, salvo poi contribuire a scavare la fossa in cui gettare la sua reputazione. Il commissario Tjärne fa anche di peggio, provocando al Nostro seri problemi con la giustizia, oltre a tentare di fregargli da sotto il naso la fidanzata, Karin, una cameriera di Askanius. Poi Edvard ha anche il problema del padre, disonesto commerciante che spacciava (come fa ora Askanius) prodotti pessimi per prelibatezze e, finito sul lastrico, viene piazzato dal figlio in un cronicario. Infine, c’è un fratello lontano che bussa sempre a quattrini, soprattutto quando gli giunge la notizia che l’altro sta per sposarsi (ma almeno questo guaio verrà scongiurato) con Karin. Insomma: «Era condannato a soffrire per sé e per gli altri, e la gente sentiva una specie d’impellente dovere di contribuire all’adempimento della sua sorte, torturandolo». Ma lui insiste, imperterrito nel porgere l’altra guancia: «Quando riceveva qualche torto non s’arrabbiava, si rattristava; né pensava a vendicarsi perché il male proprio non sapeva farlo. Trovava così infinitamente difficile l’arte di fare il male da compiangere i cattivi, considerando quanto dovessero soffrire della propria cattiveria, come fossero torturati dall’afflizione che causavano agli altri».
Libotz non sarà un santo, ma un martire sì. E, una volta che ha perso tutto, il suo unico tesoro resta la Bibbia. «Nudo venni dai lombi materni e nudo vi farò ritorno». Ovviamente, Giobbe (1, 21), perché anche la sua pazienza non ha limiti. Del resto, «Cristo aveva portato lo stesso fardello d’ignominia e ciò doveva significare qualcosa che intendere non si può».