il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2023
Sei elettori su 10 detestano l’offerta politica attuale. Intervista a Marco Revelli
Marco Revelli, i numeri del distacco dalla politica sono diventati enormi.
Iperbolici. Sei elettori su 10 detestano l’offerta politica attuale. È un dato che attesta lo stato profondamente lesionato della nostra democrazia e la condizione di una classe dirigente al di sotto degli standard minimi dell’accettabilità. È fuori luogo anche il trionfo dei vincitori: prendere il 50%, quando votano 4 persone su dieci, significa essere scelti da un quinto dell’elettorato.
Meloni però ne esce più forte.
A me pare che non abbia fatto gli sfracelli che si aspettava, non può considerarsi monopolista della sua area politica. Se la dovrà vedere, ancora di più, coi mal di pancia dei suoi partner di governo.
L’astensione colpisce in modo asimmetrico: a sinistra è devastante.
La categoria della stupidità non si usa in politica, ma ci sono casi in cui la tentazione è forte: è difficile immaginare altre spiegazioni per come siano andati incontro al naufragio; un’autoreferenzialità spinta fino all’accecamento e all’autolesionismo. Il terzo polo si conferma un “poletto” terribilmente marginale, il Pd non è pervenuto e i Cinque Stelle non hanno tratto giovamento dalla solitudine nel Lazio, ma non è che in Lombardia abbiano fatto meglio. Resta la desolazione di capire come facciano, a destra, a votare uno come Fontana, con tutto quello che è successo durante il Covid, o quell’altro impresentabile di Rocca: si vede che le qualità del candidato non contano nulla.
Anche il cosiddetto “populismo” è stanco? Il rifiuto dell’establishment non arriva più alle urne?
È una bolla che si è sgonfiata. Il 60% che sta fuori ora comunica il proprio disgusto in questo modo. L’onda, non del populismo ma dell’indignazione popolare, si esprime con una negazione: “Non mi avrete mai”.
Vede all’orizzonte qualcuno o qualcosa che possa colmare questo vuoto?
Sinceramente no, i pozzi a cui poteva attingere la politica politicante sono stati seccati o avvelenati. Veniamo da anni di cocenti delusioni, il tessuto civile di un paese non è invulnerabile, si logora.
Chi governa sembra fare serenamente a meno della partecipazione.
I ragionamenti sull’astensione dureranno un giorno, poi penseranno ad altro. Le nostre democrazie si stanno trasformando in oligarchie burocratiche, nemmeno più tanto elettive, all’interno delle quali i giochi si fanno tra le cosche, tra i gruppi di potere; quelli che Zagrebelsky chiama “i giri”, aggregati di notabili motivati dall’interesse. Un’oligarchia degli affari.
Alla luce di quello che dice, devo chiederglielo: lei a votare ci va ancora? O chi resta a casa è più lucido?
Vado a votare perché sono antiquato (sorride), continuo a pensare che i post fascisti siano uno sfregio per la nostra storia collettiva e anche per la mia storia familiare. L’ho fatto pur sapendo che le forze politiche a cui ho dato il mio voto non se lo meritavano, godevano di una rendita di posizione, del fatto di essere altro da quell’orrenda destra. Ma io ho 75 anni, un mio percorso e punti di riferimento a cui non intendo rinunciare. Capisco benissimo perché un elettore giovane, senza tutte queste vicende alle spalle, a votare non ci vada. Anche se così lascia la strada ai Donzelli, ai Delmastro, ai Durigon, a quel sottosegretario travestito da nazista (Galeazzo Bignami, ndr).
A proposito, siamo usciti dalla bolla di Sanremo, in cui milioni di italiani sono stati ipnotizzati da un festival che la destra di governo ha contestato per i messaggi – labilmente politici – “di sinistra”. Poi il giorno dopo a votare e c’era il deserto.
Il festival dovrebbe essere confinato nello spazio dell’intrattenimento, ma c’è un aspetto positivo, è stato un manometro: ha fatto riemergere sentimenti di pancia che questa destra non riesce a trattenere. Quando Meloni fa un editto bulgaro contro la direzione della Rai, rivela che ha dei riflessi istintivi che non riesce a nascondere. Ha dentro quel dna, quello per cui La Russa, quando lo si chiama fascista, risponde “piano coi complimenti”.
Dall’altra parte c’è il nulla.
Il nulla. Quel che resta di un partito, il Pd, che voleva rappresentare la sinistra e che riesce solo a guardarsi l’ombelico. E forse sarà guidato da un ex renziano.
Nemmeno chi profetizzava la “democrazia diretta” sta tanto bene.
La risposta è in quel 60% di astensione.