Corriere della Sera, 14 febbraio 2023
Crescere in carcere. Il caso di Lorenzo S.
Non è da tutti finire in galera a 10 giorni dalla nascita. A Lorenzo S. capitò questa sventura nell’ottobre 1976. Fra le braccia della madre A., varcò il cancello del carcere milanese di San Vittore, dov’era recluso D., che aveva messo incinta la donna poco prima di finire arrestato per due rapine in banca. Il padre di Lorenzo avrebbe trascorso lì dentro i successivi 10 anni e imparato la lezione: uscito di prigione, si guadagnò da vivere onestamente come robivecchi per il resto della vita. Ora, che altro poteva fare, quel frugoletto, se non seguire le orme del genitore? Lorenzo aveva appena 12 anni quando compì la sua prima rapina; ne aveva 14 quando cominciò a rubare le Fiat 500 usando le chiavette apriscatole della carne Simmenthal; ne aveva 15 quando finì al Beccaria, istituto penale per minorenni. Uscitone dopo un anno e 10 mesi, era pronto per una carriera criminale che lo fece diventare il Milanese e al cui confronto quella paterna sbiadisce: un numero imprecisato di rapine, 5 arresti, almeno 25 processi e altrettante condanne («dovrei vedere il certificato del casellario giudiziale, ma l’ho sepolto in cantina»), per un totale di 57 anni e 6 mesi di reclusione, che in Italia non si possono neppure scontare per intero, giacché la pena massima, se non scatta l’ergastolo ostativo, si ferma a 30 anni.
Lorenzo S. oggi è un uomo libero. Ha soggiornato nelle carceri di Milano, Cuneo, Alba, Novara, Matera, Alessandria, Catania, Bari, Piacenza, Bologna, Ravenna, Ferrara, Torino. Al Due Palazzi di Padova ha trovato la sua redenzione, quella che ne ha fatto un mediatore penale e sociale esperto in giustizia riparativa, narrata nel libro Io ero il Milanese (Mondadori), appena uscito, e ben compendiata da un brano dell’evangelista Giovanni in quarta di copertina, benché lui si dichiari ateo: «La luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno mai vinta». Lo ha scritto con Mauro Pescio, autore e attore che ne aveva tratto un podcast di successo in 14 puntate per Rai Play Sound.
Il Due Palazzi come luogo di riscatto.
«Veramente ci ho conosciuto il serial killer Donato Bilancia, e il capo delle Bestie di Satana, Nicola Sapone, condannato a due ergastoli, e Alberto Savi, uno dei fratelli della Uno bianca, la banda che uccise 24 persone e ne ferì 102».
In quel carcere il cappellano è don Marco Pozza, amico di papa Francesco.
«Nella mia cella non è mai entrato».
Dov’è nato?
«Al Giambellino, a Milano. Vedevo mio padre a San Vittore un’ora a settimana, quattro volte al mese. Mi aveva fatto credere che era elettricista là dentro».
Chi le disse la verità?
«Pino, suo fratello. Aveva avuto anche lui guai con la giustizia. Piansi fino a sera. Mi sentivo tradito. Mia madre faceva le pulizie, lo zio ci aiutava economicamente. Mi mise nel Convitto nazionale Longone. I compagni di classe m’indicavano la prigione dalle finestre e ridevano: “Ecco dov’è rinchiuso tuo papà”».
Ma poi suo padre uscì.
«Non è che ne gioii. In casa spadroneggiava, ficcava il naso in camera mia, mi vietava di giocare per strada. Ci portò a vivere nella sua città natale, Catania, dove al rione Librino scoprii di avere tre fratelli nati dalla relazione con un’altra donna. Il primo aveva 7 anni più di me. Legai con Giovanni, quasi mio coetaneo. Fu lui a ribattezzarmi il Milanese. Nei quartieri malfamati, da San Cristoforo a San Berillo, ho tuttora quel nomignolo».
Giovanni la avviò al crimine.
«Rapinammo 80.000 lire a un fruttivendolo. Ma prima rubammo un go-kart: avevamo sentito che serve un’auto per la fuga... Quella stessa sera, il negoziante si presentò a casa nostra. Mio padre gli restituì i soldi e mi massacrò di botte. Mi ritrovai a testa in giù, tenuto per i piedi».
Che ne aveva fatto del malloppo?
«Magliette e scarpe Nike. Per la prima volta in vita mia mi ero sentito ricco».
Ma non aveva paura?
«Non del carcere. Eravamo protetti dal casco, niente pistole. Lei deve capire che il 99,9 per cento del successo di un colpo sta nell’intenzione. Mi è capitato di compiere rapine armato solo di una penna».
La scuola non la frequentava?
«Finsi di andarci fino ai 14 anni. In terza media fui bocciato. Se oggi ho un diploma di ragioniere, lo devo alla prigione. Vorrei laurearmi in giurisprudenza».
Quindi rapinava anziché studiare.
«Esatto. Quattro diciottenni catanesi mi proposero un colpo a Milano: “Ti diamo 1 milione se fai l’apertura”. In gergo, è il momento in cui un incensurato a volto scoperto grida: “Questa è una rapina”. Salimmo al Nord in auto. Assaltammo un’agenzia Cariplo al Lorenteggio. La targa era probabilmente segnalata perché fummo subito beccati. Io finii al Beccaria e gli altri, che si erano appena spartiti un’ottantina di milioni, a San Vittore».
Nel frattempo aveva conosciuto Teresa, la sua prima ragazza.
«A 13 anni. I genitori e i 10 fratelli mi vedevano come la peste, perciò facemmo la fuitina. Si rassegnarono a lasciarci vivere in una casa popolare occupata. Nacque Salvuccio. La prima volta che lo abbracciai aveva già 30 giorni. Mia madre me lo portava in carcere, da Catania a Milano, due volte al mese. Gli sono stato accanto per meno del 10 per cento della sua breve vita. Sentivo che mi voleva bene, ma io ero capace di soddisfare solo le sue esigenze materiali e poi sparivo. A 8 anni fu colpito da un tumore al cervelletto, a 13 era già morto».
Mi spiace. E Teresa che fine ha fatto?
«Mi tradì mentre ero in galera».
Quindi la lasciò. Altre donne?
«Valeria, estetista, l’amante storica. Giorgia, volontaria conosciuta in carcere a Padova: l’ho mollata nel 2019, ma resta la mia migliore amica. Da un anno e mezzo ho una compagna che mi ha dato una figlia. Non mi sono mai sposato. Presto provvederà Mauro Pescio, il coautore del libro, a celebrare le nozze civili».
Che armi usava nei colpi in banca?
«Revolver. Smith & Wesson 38 special e 357 Magnum, comprate per 100.000 lire in una sala giochi di Catania. Mi allenavo al tiro sui terrazzi dei falansteri del Librino, progettati da Kenzo Tange».
Era pronto a uccidere?
«Non volevo farmi arrestare».
Quindi sì o no?
«Forse no, sa? Ero pronto a morire».
Come spendeva i soldi delle rapine?
«Puttane. Night. Champagne Dom Pérignon e Cristal Roederer. Una Bmw 530. Moto Kawasaki Ninja e Honda Hornet. Mi chiamavano “il bandito che veste Armani”. Negli assalti indossavo completi neri dello stilista, di lino in estate».
Investire i soldi e rifarsi una vita, no?
«Ero dipendente dal denaro. Uscivo di casa con 1.000 euro. Se me ne restavano in tasca solo 500, dovevo tornare indietro a prenderne altri 500. E poi c’era l’adrenalina del rischio, quella che mi ha tenuto lontano da eroina e cocaina».
Allora perché suo padre smise?
«Vorrei tanto chiederglielo, ma non posso: è morto. A causa del pericolo di fuga, m’impedirono di andare al suo funerale e anche a quello di mia madre».
S’ispirava a qualche malavitoso?
«A Renato Vallanzasca. La mafia avrebbe voluto affiliarmi. Non ci riuscì. Per vendetta, prese a sventagliate di mitra le vetrine della cartoleria di Teresa».
Il giorno più brutto della sua vita?
«Quando morì mio figlio. Non sono mai stato sulla sua tomba e neppure su quella dei miei genitori».
Per quale motivo?
«Sono sepolti a Catania. Ma io non voglio tornare in Sicilia, dove per tutti resto il Milanese. Da otto anni ho tagliato i ponti con i miei fratelli. Avvertivo che erano ancora invischiati in brutti giri. Mi spiace soprattutto per Giovanni, vorrei tanto che si rifacesse una vita».
Quanti anni ha passato in prigione?
«Venti. L’avvocato d’ufficio, Maurizio De Nardo di Torino, mi fece ottenere la continuazione dei reati. Fu ricalcolata la pena a partire dal primo arresto: risultò che l’avevo già ampiamente scontata. Il 19 luglio 2017 fui scarcerato».
Ora si occupa di giustizia riparativa.
«Merito della giornalista Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, volontaria nel carcere Due Palazzi. Mi ha inserito nella redazione. Nel 2018 ho aperto a Padova il Centro per la mediazione sociale e dei conflitti, con l’aiuto del criminologo Adolfo Ceretti, il mio formatore, e dell’avvocata Federica Brunelli, giurista. Faccio incontrare i carnefici con chi ha patito i reati da loro commessi, per esempio con Agnese Moro, con Manlio Milani, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di piazza della Loggia, con Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo Sergio Bazzega, ucciso dal brigatista Walter Alasia».
È stipendiato?
«Sì, dal Comune: 1.000 euro al mese».
In carcere ha imparato qualcosa?
«A rapinare meglio».
Vorrebbe abolire i penitenziari? E con che cosa li sostituirebbe?
«Non li sostituirei. Vorrei solo che si evitasse di segregarvi i tossicodipendenti, i malati psichici, le persone con disagi, i delinquenti non abituali. La detenzione non fa altro che aumentare il desiderio di riabbracciare il crimine».
Ma lei che garanzie può offrire alla società circa il fatto che non tornerà mai più a delinquere?
«Una sola: il mio lavoro. Collaboro con i tribunali e la magistratura».
Perché non ha firmato il suo libro?
«Non per vergogna, né per paura. Volevo tutelare le persone che mi sono care. Non vivo mica in un reality show».
Dorme sereno la notte?
«Oggi sì. Ma per molti anni ho sofferto di incubi».
Che genere di incubi?
«Rumori di chiavistelli che cigolano e di cancelli che si chiudono».