Corriere della Sera, 14 febbraio 2023
Biografia di Gaetano Scardocchia
Caro Aldo,
nella sua lettera sull’Italia e il razzismo lei ha citato Gaetano Scardocchia, direttore della Stampa di fine anni 80. Non conosco questo giornalista dal buffo cognome. Scardocchia: chi era costui?
Mario Prandi, MilanoCaro Mario,
premesso che non sono il più indicato a parlare di buffi cognomi, Gaetano Scardocchia era un po’ buffo anche nell’aspetto: piccolino, calvo, grande naso, grandi occhiali, poteva apparire un fumetto; ma era un fascinoso, infatti aveva una moglie straniera decisamente più bella di lui. Figlio di un barbiere di Campobasso, aveva cominciato a fare il giornalista da ragazzo, studiando di notte. Da capo della redazione romana del Corriere scrisse con Giampaolo Pansa e Pierluigi Franz l’inchiesta sullo scandalo Lockheed, ripresa dai giornali americani. Dall’America era corrispondente quando Gianni Agnelli gli affidò la Stampa. Un giorno Scardocchia venne a fare lezione alla scuola di giornalismo di Milano e mi chiese di mandargli qualche articolo. Un mese dopo mi assunse. Ogni tanto mi chiamava nel suo ufficio, sempre per rimproverarmi. Era infatti uomo di grande cuore e forte carattere. Si era scontrato con Craxi, allora l’uomo più potente d’Italia, schierando la Stampa contro la legge sul carcere ai drogati. Sul suo giornale scrivevano Natalia Ginzburg, Lietta Tornabuoni, Barbara Spinelli, Liliana Madeo, accanto a Primo Levi, Giovanni Falcone, Leonardo Sciascia, Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Luigi Firpo, Carlo Fruttero e altri intellettuali di immenso prestigio. Lanciò firme che avrei ritrovato al Corriere, come Pier Luigi Vercesi e Francesco Cevasco. La Stampa di Scardocchia vendeva 440 mila copie ogni giorno che il Signore mandava sulla terra. I ritmi di lavoro erano massacranti, soprattutto la sera. Al tempo del crollo del Muro il bravissimo caporedattore, Vittorio Sabadin, gli chiese un giorno di corta «per poter dormire»; Scardocchia rispose di no. Commise però un errore: per la riforma grafica si affidò a «focus group», gruppi rappresentativi di lettori. Fu mostrato il numero zero di una Stampa diversa, più piccola, più ariosa, divisa in fascicoli, e tutti la trovarono molto bella. A proposito dei contenuti, tutti dissero: vogliamo più cultura e più reportage dall’estero. «Finalmente!» fu la nostra reazione. Ma il lettore quello vero continuava a cercare avidamente le pagine sui delitti e il calciomercato di Juve e Toro; e le copie che Scardocchia sperava di conquistare, le perse. Agnelli gli propose di tornare in America e al suo posto chiamò il quarantunenne Paolo Mieli. Quando fu chiaro che Gaetano Scardocchia aveva lasciato la redazione, forse anche la città, nel grande open space si levò la voce di un collega, che intonò con accento torinese una canzone napoletana: «Partono i bastimenti pe’ terre assai luntane/ hanno portato via pure Gaetane…». E poiché i vecchi piemontesi della Stampa non erano mai stati entusiasti di essere diretti da un cinquantenne di Campobasso, e molti avevano provato sulla loro pelle il suo rigore, quel canto liberò risa, battute, motti di ingiusta allegria; e temo di aver abbozzato anch’io, come Franti, un infame sorriso. Da New York talvolta mi telefonava, sempre per rimproverarmi. Era il suo modo di tenermi d’occhio e volermi bene. Il suo cuore generoso si fermò tre anni dopo su un marciapiede di New York.