La Stampa, 14 febbraio 2023
Intervista a Sandro Gamba
«Non erano anni facili per Torino quelli, dicevano di non uscire di casa alla sera. E i miei amici mi avevano sconsigliato di accettare quella proposta, "Torino è una città morta, una tomba, che cosa vai a fare là?". Tutto sbagliato, avevo detto di sì a un progetto importante e poi trovato una città molto accogliente. Ho lasciato Torino solo per la Nazionale, ho perso dei soldi, ma dai, qualcosa ho vinto».
Sandro Gamba, 91 anni il prossimo tre giugno, con Cesare Rubini e Dino Meneghin uno dei tre italiani nella hall of fame del basket, ha allenato qui dal 1977 al 1980 e stasera ci torna per assistere alla proiezioni del docufilm sulla sua vita: "Un coach come padre". Sarà in prima fila, come al Forum per la sua Olimpia. Dice «quando difendiamo e quando attacchiamo», gli girano le balle quando parlano male di lui «tanto che non li ascolto» e per lui la panchina è ancora sul parquet non al parco.
Gamba, che cosa le piace di questo basket?
«L’organizzazione delle società, la disciplina dei giocatori e soprattutto il miglioramento degli allenatori. Prima sapevano solo urlare, oggi sono buoni insegnanti».
Insegnare è una nobile ma sempre più difficile attività. C’è la voglia di imparare nei giovani di oggi?
«Insegnare è alla base dello sport. I giovani sono interessati ad imparare dai grandi nomi: quando vado a parlare io ci sono mille ragazzi, se ci va un Brambilla qualsiasi, dieci - e si fa una risata-. Ma sbagliano perché anche il Brambilla di turno può avere qualcosa da trasmettere. Sa chi è l’uomo da cui ho imparato meno?».
No, dica
«Il Principe, Rubini. Io lavoravo e lui entrava l’ultimo quarto d’ora con il fischietto».
Bisogna scegliere sempre assistenti migliori di noi: è un suo dogma. Ce lo spiega?
«Un assistente deve saper criticare e consigliare. Ma spesso fanno i tirapiedi e si limitano a passare l’asciugamano. Ho fatto l’assistente di Rubini, mi diceva che ero bravo. Aveva ragione, qualcosa ho combinato nella mia vita».
Il suo miglior assistente?
«Gianni Asti. E lo dico con grande piacere visto che sto arrivando a Torino. Sono contento che gli abbiamo intitolato il Palasport, mi spiace solo che non abbia mai allenato una grande squadra».
Altro comandamento dalle tavole secondo Gamba: non si finisce mai di imparare. Vale anche a 91 anni?
«Certo. Ho imparato a vivere bene gli ultimi 10 anni della mia vita. E ne avevo 80. Ora ho l’arrampicata fino a 100 e non devo più fare quegli errori di gioventù, ma la mia vita è organizzata bene. Come lo erano le mie squadre».
Alla voce tecnici, quelli del basket sono i più intelligenti: vero o falso?
«Vero. E le spiego il perché: devi studiare molto, per ogni difesa devi saper attaccare in modo diverso e viceversa. Devi essere immediato nelle decisioni e molto elastico. La lettura è diversa rispetto alle altre discipline: qui giochi con le mani, devi ridurre al minimo l’errore. Sette palle perse e io diventavo una belva».
É vero che Gigi Radice ha imparato da lei quel pressing che poi applicò al Torino?
«Andavamo in spiaggia insieme a Cavi di Lavagna e che cosa voleva che facessimo, si parlava di sport. Sulla sabbia disegnavo come far muovere i giocatori, "guarda che per noi è più facile" gli dicevo. E invece ha imparato alla perfezione».
Il suo quintetto ideale?
«Lo faccio tutto italiano: Ossola, l’unico irrinunciabile, Riva, Bisson, Vianello e Meneghin. Dino era più un’ala grande, ma in Italia alti come lui non c’erano e quindi finì al centro».
Le piacerebbe allenare oggi?
«Insegnare, non allenare, Certo. Le mie squadre: Milano, Varese e sì, anche Torino. E mi piace Melli come giocatore».
Con lei in panchina: nel 1980 l’argento ai Giochi di Mosca e nel 1983 l’oro europeo a Nantes. Il basket era a un passo dal calcio come risultati e notorietà: poi che è successo?
«Che l’Europa ha allargato i confini e il basket anche. E noi abbiamo pagato dazio».
Le piace questo basket dove il tiro da tre trasforma una partita nel tiro al bersaglio?
«All’inizio era davvero così. Poi gli allenatori hanno cominciato a lavorare sulla tattica anche per il tiro da tre. Prenda LeBron James: lui è quello che ha segnato di più giusto?»
Giusto. Però?
«Però senza la squadra che lavora per lui e lo mette in condizioni di tirare senza le mani in faccia, non segnerebbe così tanto».
Ha attraversato molte fasi della nostra storia, qual è la sua Italia preferita?
«Quella della rinascita, del boom economico. Quando abbiamo capito che l’Italia poteva diventare ricca».
Bianchi e neri nel basket hanno sempre giocato insieme. Invece, e non solo nello sport, il razzismo è ancora presente. Perché?
«Finita la guerra, il giorno dopo giocavamo a basket con i soldati neri dell’esercito americano. Nel campetto di via Washington dove si allenava la Borletti: siamo stati subito da esempio».
E adesso?
«Prima avevamo paura dei meridionali, ora dei neri. La verità è che siamo dei pirla anche se non nego che ci siano zone dove l’immigrazione possa mettere paura».
Ha conosciuto il fascismo, quello vero: che cosa pensa dell’Italia governata dalla destra?
«É meglio di tante altre. Solo, c’è una generazione di giovani che si è arricchita troppo in fretta a discapito di altri e fa un po’ troppo quello che vuole, senza comprendere il valore del denaro. E questo non fa del bene al Paese. Sono un po’ all’antica, un calcio nel sedere non farebbe male ogni tanto».