la Repubblica, 14 febbraio 2023
Pascal Chabot spiega che cos’è l’Ipertempo
Il filosofo Pascal Chabot viaggia nelle rappresentazioni del tempo per consegnarci una meditazione quanto mai necessaria. Avere tempo, saggio di cronosofia parte da un’attenta osservazione di un’epoca in cui navighiamo tra nostalgia del passato, dipendenza dal presente e inquietudine per il domani. Nel definire i vari “schemi” della nostra temporalità — che si accavallano e talvolta si scontrano — Chabot offre una chiave filosofica per tentare di liberarsi dal senso di espropriazione del bene più prezioso che abbiamo, onnipresente in quantità e inafferrabile in qualità. «Vivere — esordisce — non è altro che avere tempo».
Eppure, mai come oggi, ne sentiamo la mancanza. Come nasce questa contraddizione?
«L’ora è ovunque, richiamata su ogni schermo. Abbiamo una conoscenza quantitativa del tempo che i nostri antenati non hanno mai sperimentato. Quello che manca è una riflessione sulla qualità delle nostre diverse e molteplici temporalità. È una delle cose più difficili che esistano, probabilmente al centro della filosofia. Ho scritto una decina di saggi e questo è stato probabilmente quello che ha avuto maggiore impatto su di me. Non c’è niente di più fondamentale nelle relazioni, nell’evoluzione personale o in ciò che ci si aspetta dalla propria esistenza».
Riflettere sulla lunga storia del tempo è già un modo di riprenderne il controllo?
«Questa nozione universale ha implicazioni psicologiche molto importanti. Ci sono individui che guardano costantemente al passato, sviluppando un senso di fiducia sulla base dei ricordi. Altre persone vivono immerse nel presente, un carpe diem permanente. Infine c’è chi vive solo nel futuro, nel progetto, per cui tutto è sempre domani. Dettoquesto, esiste una misura oggettiva. All’inizio del libro immagino una sorta di clessidra della mia vita, calcolando il numero di granelli, le tonnellate di sabbia che mi rimangono. Il nostro rapporto con il tempo varia infine a seconda delle civiltà. Tra un’antica donna egizia e una studentessa di oggi a Roma ci sono differenze colossali. La coscienza del tempo è culturale».
La “battaglia dei tempi” è uno dei principali problemi contemporanei?
«Cominciamo con il dire che nessuno schema di civiltà è puramente ciclico o lineare. Vedo una spirale che combina la dimensione dell’irreversibilità lineare con quella della ripetizione ciclica. C’è il tempo del Fato, quello dei nostri corpi, del susseguirsi dei giorni e delle notti, del Pianeta in divenire. È la trama di fondo, il 99 per cento della nostra temporalità, indipendente da noi, a lungo interpretata religiosamente: durante gran parte della storiadell’umanità il tempo apparteneva a Dio. Con la modernità è arrivato il tempo del Progresso, legato all’evoluzione della scienza e della tecnologia attraverso cui l’umanità pensa sia possibile trasformare il presente in modo che il domani sia diverso. Per tutto il Ventunesimo secolo abbiamo assistito allacontrapposizione tra Fato e Progresso. Ad aumentare la complessità è arrivato poi l’Ipertempo, quello della civiltà digitale, che scivola via dall’uomo sotto l’effetto delle forze tecno-scientifiche e finanziarie, potenziate dalla globalizzazione.
Con effetti sorprendenti come l’irruzione nelle nostre vite di calcoli, conteggi e conti alla rovescia. Quando guardiamo un film su una piattaforma sappiamo quanto manca alla fine, se cominciamo un viaggio in macchina il sistema Gps ci avverte dell’ora di arrivo».
L’Ipertempo è il neologismo da lei coniato per descrivere questa accelerazione.
«Il tempo quantificato è uniforme.
Matematizzare il mondo è innanzi tutto mettere da parte le sue qualità sensibili. Ho lavorato molto sul progresso tecnologico e sul modo in cui modifica la coscienza, il rapporto con la società. Questo neologismo di Ipertempo mi èvenuto in mente lavorando sul burn out nel mondo professionale. Mi sono accorto che in definitiva la sofferenza psicologica negli ambienti professionali è provocata dallo scontro tra regimi di tempo incompatibili. L’Ipertempo è anche quello dell’immediatezza, del ritmo dei media e dell’economia che ci stordisce, l’imperativo ad agire ora e subito. Reagire prima che decidere, lasciando da parte la riflessione, inevitabilmente più lenta».
Questa accelerazione cambia anche il nostro rapporto al futuro?
«Un altro schema temporale molto recente è la Scadenza. È quello che ci rimane per agire prima che si verifichi una catastrofe ecologica vista come ineluttabile. È una nozione che si collega alla civiltà cristiana — l’apocalisse, il giudizio universale — che assume nuova consapevolezza con modelli scientifici che permettono di prevedere l’evoluzione dello scioglimento dei ghiacciai, dell’innalzamento del livello degli oceani. La Scadenza provoca la sensazione di essere privati di futuro, soprattutto tra le giovani generazioni. Contro questa nuova forma di fatalismo, possiamo immaginare ponti tra ecologia e tecnologia, in definitiva ricominciare a costruire un futuro».
E come? La “Cronosofia” è la risposta?
«È una forma di saggezza basata sulla figura dell’Occasione: il momento che si presenta e non tornerà più. È il tempo filosofico per eccellenza, una sorta di fuga dalle varie temporalità di cui abbiamo parlato. Per riconoscere l’Occasione serve la consapevolezza del carattere irreversibile della spirale del tempo. Per me è l’immagine dikairosche per i greci era un piccolo dio raffigurato con la testa rasata affinché nessuno potesse afferrarlo per i capelli. È uno schema in cui l’espressione “avere tempo” ritrova la sua umanità, perché il tempo va preso, quanto lasciato, in base alle priorità dei nostri desideri».