la Repubblica, 14 febbraio 2023
Alessandra Campedelli, ct a Teheran
Per un anno appena Alessandra Campedelli è stata ct delle nazionali femminili iraniane di volley. Le sue ragazze, in campo con l’hijab, maglia e pantaloni lunghi, hanno vinto la medaglia d’argento ai Giochi Islamici, ad agosto, perdendo in finale contro la Turchia. L’uccisione di Mahsa Amini e i mesi drammatici che ne sono seguiti hanno complicato tutto. L’allenatrice trentina, alla fine, ha detto basta. «Non potevo più restare in un Paese che discrimina le donne e non ha rispetto per la vita umana».
Era iniziata in tutt’altro modo quest’avventura. A gennaio 2022.
«Era un’esperienza voluta, cercata e sono grata di avere avuto la possibilità di viverla. Non avrei mai immaginato però tutti i problemi che sono sorti in questi ultimi mesi».
Quali erano gli obiettivi della Federazione di Teheran?
«L’idea era quella di far sviluppare le nazionali seniores, U19 e U17 e di portarle al livello delle migliori del continente asiatico. Il volley ha una grande tradizione in Iran e ha un’ottima nazionale maschile. Le cose sono cambiate subito: è stata forse un’operazione disportswashing . Volevano dare un’immagine diversa all’esterno del volley e dello sport femminile».
La morte di Mahsa Amini come ha inciso sul suo lavoro e sul loro atteggiamento?
«La federazione negava tutto e questo ha condizionato la mia serenità. Mi dicevano che le proteste sono normali, in ogni Paese».
Quali sono state le maggiori difficoltà durante la sua esperienza?
«Ho dovuto imparare ad adeguare i miei comportamenti al mondo che avevo intorno, anche nella comunicazione verbale. Ho dovuto imparare a sorridere davanti a situazioni per me incomprensibili».
Lei ha vissuto per un anno in Iran: che aria ha respirato lì?
«La situazione dopo l’esplosione delle rivolte è molto cambiata.
Non ero più libera di comunicare con il mondo esterno e con la mia famiglia, il governo limitava anche l’uso di Internet. Ho vissuto quasi sempre nel centro olimpico, a Teheran, in una cameretta di 9 metri quadrati, proprio sopra alla palestra. Un televisore, ma senza satellite, finestre senza tapparelle e con le sbarre. Il Wi-Fi non funzionava. Una situazione dignitosa per chi ci si deve fermare per periodi brevi. Non certo perviverci un anno intero».
Ha avvertito differenze di trattamento tra uomini e donne?
«Gli allenatori della nazionale maschile vivevano a pochi metri di distanza, all’Olympic Hotel, 5 stelle. Per accordi con la federazione poi dovevo sempre indossare l’hijab e uscire con braccia e gambe coperte. La cosa più difficile da accettare però èstata il perché io dovessi indossarlo anche quando ci trovavamo al di fuori dall’Iran. Io credo di aver fatto davvero tanto per andare incontro alla loro cultura, loro non hanno fatto nulla per venire incontro a me. Solo parole e promesse».
E così si è arrivati alla fine del suo contratto.
«L’accordo scadeva il 31 gennaioscorso. Mi hanno proposto il rinnovo via mail. Io non ho accettato. Per me era diventato impossibile collaborare con una federazione che fa capo ad un governo che non rispetta la vita, le libertà della persona e che non rispetta le donne. E poi ho capito che non c’erano i presupposti per poter far realmente crescere la pallavolo femminile».
Ma in realtà la sua nazionale con lei stava crescendo.
«L’argento ai Giochi Islamici era la dimostrazione che lavorando bene ci si può avvicinare alle squadre più forti del continente asiatico. Ma per raggiungere Cina, Turchia e Giappone sarebbe servito un lavoro di anni, ci sarebbe voluta tanta pazienza ancora. E loro volevano risultati immediati».
Questa esperienza cosa le lascia umanamente?
«L’aver avvicinato e motivato tante allenatrici. Aver dedicato loro tempo affinché potessero sentirsi coinvolte nel processo di crescita della pallavolo iraniana.
L’aver permesso a giovani atlete di appassionarsi e di sognare un futuro migliore grazie allo sport. E l’aver dato la possibilità a queste ragazze di uscire dai confini dell’Iran e di vedere come si vive e ciò che accade fuori dal loro paese per i nostri raduni collegiali in Europa. E mi porterò per sempre dentro una cosa, che vale più di tutte le altre: la gratitudine che mi hanno espresso quando hanno saputo che non sarei più stata con loro».