Corriere della Sera, 13 febbraio 2023
Storia di Roberto Strulli, primo morto su un campo di calcio
«H o sentito un agghiacciante scricchiolio d’ossa. Strulli ha fatto un movimento, sull’erba, poi non si è più mosso, aveva gli occhi sbarrati, era in coma. I giocatori sono rimasti calmi, il pubblico in silenzio: il fallo era parso a tutti chiaramente involontario. Uno solo gridava sul campo, Caposciutti. Era rotolato a terra, si era subito alzato gridando: “Arbitro, l’ho colpito, l’ho colpito io” ed appariva in preda a una grave crisi nervosa» . Così l’arbitro di quella sfortunata partita, Paolo Pfiffner, descrisse l’incidente che per la prima volta, nel calcio moderno, costò la vita a un giocatore italiano.
Eccolo, Alfiero Caposciutti, oggi più che ottantenne. La sua storia, la sua vita, si intreccia con quella di Roberto Strulli, portiere dell’Ascoli, caduto sul prato dello stadio Ballarin di San Benedetto del Tronto, impianto che nel 1981 prese fuoco durante un incontro, provocando la morte di due ragazze. La storia delle morti sui campi italiani prosegue, nel 1977, con Renato Curi, stroncato da un infarto sul prato dello stadio di Perugia e, nel 2012, con Piermario Morosini caduto a Pescara.
Ma della morte di Roberto Strulli, avvenuta il giorno di San Valentino del 1965, nessuno, a eccezione delle comunità locali, sembra ricordarsi. Neanche Wikipedia che elenca, dal 1889 ad oggi, tutti i caduti sui campi di calcio a causa di incidenti durante il gioco, fa menzione di quello che accadde in quella giornata piovosa a San Benedetto del Tronto, durante uno dei derby più infuocati che il calcio italiano conosca. Mazzone, quando allenava la Roma e gli chiedevano se era in tensione per il derby della capitale rispondeva che non poteva esserlo, avendo giocato quelli tra la Sambenedettese e l’Ascoli. E anche quel giorno Mazzone era in campo.
Dice Alfiero Caposciutti, centravanti della Samb in quella maledetta partita: «C’era un clima infuocato, come sempre. Il nostro derby è tra i più sentiti. Ma mentre i tifosi sono da sempre divisi dall’odio sportivo, noi giocatori condividiamo un lavoro, non solo una passione. Ricordo che quel giorno a centrocampo, prima del fischio d’inizio, parlavo con Roberto Strulli. Ci dicemmo che a fine partita saremmo scappati subito. Io dovevo tornare con mio padre in Toscana e lui doveva correre da sua moglie, che aspettava un bambino. Non c’era antagonismo tra le persone.
Noi alla fine del primo tempo eravamo già sul 2-0. Sul finire ci fu una punizione dal limite a nostro favore. Strulli parò il tiro ma il pallone gli sfuggì e carambolò all’altezza del dischetto del rigore. Ci siamo avventati contemporaneamente su quella palla, lui per farla sua, io per segnare il terzo gol. Quando ho capito che lui stava per arrivarmi addosso ho cercato di fermarmi. Ma lui, per sfortuna, mise una mano all’esterno delle mie gambe e una all’interno. Sbatté la mascella sul mio ginocchio piegato e perse i sensi subito. Io fui scioccato, non posso dimenticarlo. All’inizio del secondo tempo l’altoparlante disse che Strulli si era rimesso e che sarebbe arrivato allo stadio a fine partita. Fu una bugia, detta per allentare la tensione ed evitare che ci fossero scontri. Quando l’arbitrò decretò la fine dell’incontro io rientrai negli spogliatoi e chiesi subito di Strulli. Mi dissero che non era tornato e allora andai subito all’ospedale».
Dice Paolo Beni, allora capitano della Samb: «L’abbiamo portato fuori noi, appoggiato a un cartellone pubblicitario. Era senza conoscenza. Un mese prima era venuto a casa mia per vedere come avevo allestito la stanza per mio figlio, lui anche stava per diventare padre. Era un collega, un bravo ragazzo. Aveva un’altra maglia, ma ora questo non contava più. È stata una disgrazia, tutti noi siamo stati molto male».
Silvio Camaioni, giovane difensore dell’Ascoli, quel giorno era in panchina: «Strulli? Un ragazzo magnifico. Era un po’ più grande di noi ragazzi della “De Martino”, ci dava consigli, come un padre, ci faceva la morale, ci diceva quello che non dovevamo fare per non rovinarci la carriera. Di quel giorno ricordo una cosa che mi colpì. Sul pullman che ci portava allo stadio, Strulli si mise all’ultima fila, in un posto in cui non aveva nessuno a fianco. Non aveva mai fatto così. Il massaggiatore passò tra noi allo scopo di prendere gli ordini per il pranzo. Chiamò più volte Strulli che non rispondeva. Poi lo strattonò. Non dormiva, pensava. Forse era già concentrato sulla partita, ma mi apparve perso nei suoi pensieri.
Lo dico senza tema di smentita. L’incidente è stato fortuito, Caposciutti si è fermato per evitarlo ma Roberto sbattè sul suo ginocchio che, piegato, era più duro di un muro. Si capì subito che era successo qualcosa di grave. Io corsi a vedere e rimasi stravolto, la mandibola gli aveva sfondato il cervello. Tutti ci mettemmo a piangere, lui era immobile, con gli occhi sbarrati. Era un mio amico, mi si fermò il cuore».
Riprende Caposciutti: «Quando arrivai all’ospedale sentii il medico della Samb dire di avvisare i familiari di Strulli, che non si sarebbe più ripreso. Nella notte arrivò, superando le intemperie di un viaggio difficile, un professore da Roma che disse la stessa cosa. Il mio allenatore mi impose di andare via, di tornare a casa. La mattina alle sei telefonai all’ospedale e mi dissero che Roberto era morto. Per me fu una coltellata. Non sapevo più cosa fare, ripassavo nella mente le immagini e le sensazioni di quegli istanti, di quei maledetti istanti. Mi chiamò il direttore de la Nazione, che conoscevo, e mi disse di andare a Firenze per parlare e spiegare il mio punto di vista. Quando ero lì si affacciò nella stanza un giornalista dicendo che avevano trovato una foto che documentava il momento dell’impatto. Mi si gelò il sangue nelle vene. Io sapevo come era andata, ma se la foto avesse dato un’altra sensazione? Per fortuna quell’immagine è inequivoca. Io ho le gambe vicine, non alzate, le braccia in alto, le ginocchia piegate».
Ma c’era tanta rabbia. Ai funerali di Strulli i tifosi inferociti avevano buttato a terra la corona della Sambenedettese e nei giorni successivi a dei venditori di pesce di San Benedetto era stato impedito di fare il loro lavoro.
Anni dopo un giornalista mi chiese se avevo mai cercato i familiari di Strulli. Io non ci avevo pensato, inconsciamente non avevo avuto il coraggio. Decisi che sarei andato da loro. Arrivai a casa Strulli. Mi aspettavano sulla soglia la moglie e il figlio che mi abbracciarono, prima lei e poi lui. Mi dissero le parole che mi hanno tolto definitivamente un peso dal cuore, un peso enorme: “Non abbiamo mai pensato che tu fossi responsabile di quello che è successo”».
Me lo ripete oggi Roberto Strulli, il figlio del portiere dell’Ascoli, che si chiama come il padre: «Fu uno scontro del tutto fortuito, Caposciutti non ha responsabilità. Lo abbiamo incontrato, è una bella persona. Il campo era allentato, è stato un incidente di gioco, uno spaventoso incidente di gioco. Io sono nato dopo, non l’ho mai conosciuto. Ma tutti mi hanno detto che era una persona solare, aperta, allegra. Ho alcune delle sue magliette con il numero uno. Non solo quelle dell’Ascoli, anche quella della nazionale dilettanti nella quale fu convocato. Aveva ventisei anni, mi hanno detto che l’Inter lo teneva d’occhio come possibile terzo portiere, per lui sarebbe stata una grande soddisfazione. Anche io ho giocato al calcio, da stopper. Ma mia madre non è che fosse entusiasta, e la capisco. Papà è morto il giorno di San Valentino. Lui e mamma si erano sposati a 18 anni e lei conserva ancora una lettera che prima della partita mio padre le scrisse, visto che erano lontani, proprio per celebrare la festa degli innamorati di quel 1965».
Roberto Strulli, giovane portiere di calcio morto sul lavoro, merita di non essere dimenticato.