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 2023  febbraio 13 Lunedì calendario

«Così seppellimmo Priebke in segreto»

Giuseppe Pecoraro, 72 anni. Lei oggi coordina la lotta all’antisemitismo dopo aver passato tutta la sua vita professionale nelle prefetture d’Italia, a Rovigo, Prato, Benevento. È stato vicecapo della polizia e soprattutto, dal 2008 al 2015, è stato Prefetto di Roma. Per lei questa storia comincia l’11 ottobre del 2013, quando il telefono squilla nel suo ufficio. Chi la sta chiamando e perché?
«È il professor Ignazio Marino, sindaco di Roma, che quasi urlando, mi dice: “è morto Priebke, e io non ritengo di provvedere alla sua sepoltura. I motivi sono di ordine pubblico: tra i neofascisti che lo vogliono celebrare, la sinistra che lo vuole contestare, io non me la sento di ospitare rito funebre e funerale, e avverto il governo”».
Ma il sindaco ha questo potere di vietare un funerale?
«Il sindaco non può impedire che si svolga un funerale, ma può far sì che avvenga in forma privata».
Quindi in quel momento irrompe tra i suoi doveri un compito non previsto: gestire funerale e sepoltura di Priebke, l’ufficiale delle SS che era stato vicecomandante della Polizia di Roma occupata, che dava la caccia agli antifascisti, che li torturava nel carcere di via Tasso e che alle Fosse Ardeatine teneva la contabilità dei giustiziati, 335, 5 in più di quanto era stato deciso per rappresaglia dopo l’attentato di via Rasella. Si rende immediatamente conto della delicatezza del caso?
«Non c’è dubbio. Il nome di Priebke è tristemente famoso e a Roma tutti ricordano le Fosse Ardeatine, tutti conoscono il Male causato da quest’uomo, che per di più non si è mai pentito. Sapevo cosa stava per succedere ed ero molto preoccupato».
La figura di Priebke aveva già creato problemi di ordine pubblico?
«Sì, periodicamente c’erano state delle azioni di protesta nei suoi confronti, come pure iniziative nostalgiche, ad esempio la festa per i suoi cento anni».
Un caso di rilevanza mondiale. Lei cosa decide di fare come prima mossa?
«Sapevo che Priebke si trovava nella Cappella del Gemelli, dov’era morto.
Per cui ho pensato che lì si potesse svolgere il rito funebre, e ho chiamato il Cardinal Vallini, Vicario di Roma: subito si è detto d’accordo, ma quando si è reso conto che molte persone di destra e di sinistra si stavano mobilitando per andare al Gemelli, mi ha chiesto di trovare un’altra soluzione. Dovevo ricominciare».
Decide subito di contattare i figli di Priebke?
«Sì, vivono all’estero, uno in Patagonia e l’altro negli Stati Uniti. La prima idea che mi viene è quella della cremazione».
Perché?
«Sono sincero: era la cosa più semplice, perché con la cremazione veniva meno il corpo, elemento simbolico e materiale per i nostalgici, al centro di possibili conflitti politici.
Ma i figli non mi hanno concessol’autorizzazione».
Lei si è trovato davanti una domanda millenaria: che fare col corpo del nemico? C’è il problema che quel corpo da vivo non ha mai voluto separarsi dalla colpa, e quindi ne è ancora in qualche misura investito. Bisogna evitare che diventi un sacrario nazista, o un luogo d’oltraggio. Cosa si può fare?
«Io penso che si debba partire dai valori che sono alla base della nostra democrazia, e che ci impongono di avere rispetto per il corpo del vinto, anche se colpevole».
Sta dicendo che la Repubblica processa perché vuole giustizia, rispetta la condanna ma non cerca vendetta?
«Non pratica vendette, la democrazia, e questo è un insegnamento per tutti».
Ma c’è una contraddizione: tocca a lei provvedere alla sepoltura di Priebke, come prefetto di Roma, ma Roma non vuole questi funerali perché è la città delle Fosse Ardeatine. Come si scioglie questonodo?
«Innanzitutto tenendolo ben presente. Non era possibile avere uno dei colpevoli dell’eccidio delle Fosse Ardeatine vicino a chi era morto in quella strage. La popolazione di Roma non avrebbe mai accettato».
Il sindaco dice di no, il Vicariato di Roma si tira indietro, al Gemelli non è possibile fare questi funerali, i figli negano il permesso per la cremazione. Dunque?
«Si pone il problema di cosa fare della salma. Una soluzione sta diventando urgente. Ed ecco che mi arriva un telegramma dalla Comunità lefebvriana di Albano Laziale, che si dichiara disponibile a officiare i funerali di Priebke».
Ma la Comunità lefebvriana di Albano era finita nell’occhio del ciclone nel 2009, quando Monsignor Richard Williamson disse che nei campi nazisti non c’erano le camere a gas, e poi si dovette scusare con Papa Benedetto XVI. In più proprio in quei giorni, la commissione giustizia del Senato istituisce il reato di negazionismo: forse i lefebvriani non erano la soluzione più giusta, non crede?
«Ma lei non considera che io dovevo togliere la salma dall’ospedale Gemelli, perché la gente stava affluendo, col rischio di scontri.
Bisognava andare ad Albano Laziale dove c’era questa Cappella disponibile. E dove, altrimenti?».
Ma quando il furgone con la salma di Priebke arriva davanti all’Istituto San Pio X succede il finimondo. Se lei tornasse indietro, considererebbe ancora quella dei lefebvriani la soluzione migliore?
«Non so se era la soluzione migliore, certo in quel momento era l’unica».
Il sindaco però, nella sua ordinanza, invoca problemi di ordine pubblico. Come mai lei decide di andare comunque avanti?
«Perché il sindaco non poteva rivendicare motivi di ordine pubblico, in quanto si trattava di un rito funebre in una cappella privata, in un suolo privato. Per cui non poteva interferire. Anzi, dovevamo sbrigarci perché gruppi di estremisti stavano arrivando da Roma».
La situazione è questa: alle 19.30la funzione, che doveva cominciare due ore prima, non è ancora iniziata. Alle 19.50 è definitivamente sospesa. Cosa sta succedendo?
«Come temevo cominciano gli scontri. Per evitare il peggio annullo il funerale in attesa di trovare il momento opportuno per portare via la salma di Priebke».
Ma quel corpo adesso è dentro l’Istituto San Pio X assediato dai fascisti. Come pensa di impadronirsi della bara?
«Faccio arrivare ad Albano Laziale un furgoncino anonimo con agenti di polizia in borghese. Quando i neofascisti vanno a mangiare gli agenti penetrano all’interno, trasportano la bara fuori attraverso la finestra, la caricano sul camioncino e partono».
Siamo al rocambolesco, la bara trafugata dalla finestra. Quel furgoncino col corpo di Priebke infuga è un po’ l’immagine del fallimento di questa prima fase e mette lei al centro delle polemiche.
C’è chi chiede le sue dimissioni, molti l’accusano di fare scelte di parte, ideologiche. Lei pensa di gettare la spugna, di rinunciare?
«Non ci penso proprio, in quel momento cerco solo di portare la baraaltrove, evitando incidenti. L’unica preoccupazione non riguarda gli attacchi a me, ma il rischio che nel trasferimento il furgone con la salma possa essere intercettato».
Dove lo sta dirigendo?
«Verso Pratica di Mare, dove c’è una caserma dell’aeronautica, e quindi nel caso posso chiedere l’aiuto deimilitari presenti».
Intanto i suoi piani saltano ad uno ad uno. Che ipotesi rimangono sul suo tavolo?
«Guardi, a un certo punto ho ipotizzato un trasferimento della salma in Argentina, dove Priebke aveva vissuto per un lungo periodo, ma Buenos Aires non ha mai risposto ai nostri sondaggi. Poi ho pensato alla Germania, ma i tedeschi non ne volevano proprio sapere, chiedevano soltanto che noi arrivassimo infine alla sepoltura del corpo. Rifiuto netto anche dai cimiteri militari tedeschi, perché Priebke non era morto in guerra: e dai sindaci di quattro città, che contatto e mi dicono di no».
Nessuno vuole il corpo del nemico. Lei però è in una tenaglia.
Per il rispetto della storia deve evitare un’altra Predappio, per il rispetto della democrazia deve dare sepoltura al corpo di Priebke. La bara è ferma in un hangar con la finestra aperta a Pratica di Mare.
Quanto può reggere una situazione del genere?
«Infatti, non poteva reggere. Sentivo anche la pressione dell’aeronautica, affinché io portassi via la salma, i soldati mormoravano, tant’è che per evitare complicazioni ho disposto un’altra zincatura della bara. Ma tutto questo non basta».
Cioè lei capisce che deve compiere una scelta, deve prendere una decisione?
«Certamente. Dovevo uscire da questa impasse, toccava a me. Prima di tutto perché me ne ero assunta la responsabilità di fronte al governo.
Poi, e soprattutto, perché la sepoltura di Priebke era diventata una questione internazionale».
Si è reso conto allora che il nome di Priebke rendeva il caso universale?
«Certo, il mondo ci guardava per la difficoltà di decidere ma soprattutto per ciò che Priebke era stato, con le sue azioni e le sue parole».
Siamo in una situazione in cui l’urgenza incalza fortemente, ma il muro dei no impedisce una soluzione. Come si può forzare questo sbarramento?
«Ragionando su Priebke, sulla sua vita, sui crimini, sul giudizio, lacondanna. A un certo punto mi trovai a pensare: ma era un detenuto… è morto da detenuto…».
Lei trova un bandolo nella sentenza del 1998 che condanna Priebke e fa sì che al momento della morte Priebke fosse tecnicamente un carcerato: è così?
«Esattamente. Era la svolta. Mi sono detto, ma se muore un detenuto dove viene sepolto? Se nessuno richiede la salma, viene sepolto nel cimitero del carcere».
Quindi?
«Quindi io potevo utilizzare la condizione giudiziaria di Priebke – detenuto – per arrivare alla sepoltura nel cimitero di un carcere. Così c’è l’inumazione della bara, ma il muro della prigione impedisce ogni pellegrinaggio e ogni oltraggio».
Ma anche in questi casi bisogna chiedere l’autorizzazione ai sindaci?
«Certamente. Quindi dovevo trovareun carcere il cui cimitero non era amministrato da un sindaco. Con fatica lo abbiamo individuato, ho chiamato il direttore del carcere e l’ho informato di dover svolgere un’azione coperta dal segreto di Stato».
Senza dire chi era il detenuto che veniva sepolto?
«Certo, senza dire nulla».
E lo ha vincolato al segreto?
«Per forza: anzi, mi ero fatto fare dal Ministro dell’Interno una delega per cui tutta l’operazione era coperta da riservatezza. Tutti dovevano mantenere il segreto».
Non crede il segreto assoluto, il “segretissimo”, sia la conferma di quanto è ancora difficile un rendiconto pubblico sulla tragedia del secolo scorso?
«Infatti. Era necessario mettere il “segretissimo” proprio per evitare speculazioni e manifestazioni nostalgiche».
Sono le 11 di sera di un venerdì, 14 giorni dopo la morte di Priebke. È l’ora della scelta: il cimitero di un carcere. In questo modo Priebke avrà la sua tomba come voleva, ma l’avrà nella terra del paese che è stato profanato con l’eccidio, e sarà una terra prigioniera. È questa la soluzione?
«Sì, una soluzione capace di soddisfare i valori della democrazia e anche la famiglia Priebke. Informo i figli che verrà sepolto in forma riservata e in un luogo segreto. Tanto è vero che il direttore del carcere e gli uomini che portano la bara nel cimitero non sanno di chi è la salma che viene sepolta».
È verso quel cimitero che si dirige la station wagon partita da Pratica di Mare: la bara coperta da un telo passa davanti all’ultima bandiera italiana, entra nel carcere nella sospensione della domenica, quando non ci sono visite né lavori, mentre i detenuti sono tutti in cella. Chi si occupa della sepoltura?
«Due carabinieri partiti da Roma con una zappa, un piccone e una croce che verrà messa sulla tomba, con un numero. Quel numero è riportato su un foglio che io ho custodito nella cassaforte in prefettura. Serve a identificare la tomba, se un giorno i figli vorranno visitarla».
Sono venuti?
«Non mi risulta».
Lei è andato a visitare la tomba di Priebke?
«Sono andato per controllare l’esito finale di questa vicenda incredibile, e per avere la prova che lo Stato democratico in silenzio ha fatto il suo dovere. Oggi finalmente la vicenda Priebke è chiusa».
Lei sta dicendo che la democrazia, compiuto il suo dovere, può riprendersi i suoi diritti, a partire dalla distinzione tra il bene e il male?
«Proprio distinguendo tra il bene e il male si afferma la forza della democrazia e il dovere della giustizia».
Prefetto, da questa vicenda si può trarre la lezione che non esistono situazioni impossibili, perché c’è sempre la possibilità della scelta, il dovere della scelta?
«Le lezioni sono due: l’impossibile può essere sfidato, l’importante è assumersi la responsabilità di una scelta, che c’è sempre. Ma i fantasmi del Novecento sono ancora pericolosi, soprattutto per i giovani.
Per questo non bisogna avere nessuna indulgenza: guai a essere indifferenti, la storia insegna».