la Repubblica, 13 febbraio 2023
Breve storia del rapporto tra Rai e politica
Ci risiamo, doveva accadere prima o poi e Sanremo era l’occasione perfetta per “cambiare narrazione sulla Rai”, come suggerito dal sottosegretario alla Cultura, fratello d’Italia e manager musicale Gianmarco Mazzi. Ed è un irresistibile omaggio al lessico dei tempi e insieme all’ipocrisia quest’uso di “narrazione” per intendere conquista, predazione, saccheggio, spoglio, razzia – ciò che finora Meloni non ha fatto, ma sta per fare.
Perché molto semplicemente dalla fine della Prima Repubblica la Rai è bottino di guerra e chi vince se la prende; destra sinistra o centro non fa differenza, c’è su questo la più ampia e incontestabile letteratura; e se tale selvaggia interpretazionepuò scandalizzare gli animi delicati o quanti ancora ritengono che il “servizio pubblico” – espressione che già riecheggia il più tragicomico cortocircuito con la realtà – abbia fra i suoi compiti «l’elevazione civica e spirituale dell’intera comunità nazionale», come proclamò nel 2008 il ministro berlusconiano Bondi scagliandosi contro il programma “Glob” del comico Bertolino, beh, insomma, è così – e come sarebbe altrimenti?
Sia qui consentito tralasciare la stagione degli albori, il severo regime di Bernabei e la successiva più giocherellona saga della lottizzazione cui parteciparono prima i socialisti e poi i comunisti con la terza rete. Tramanda la più recente storia politica e leggendaria di Sanremo che nel 1981, l’anno più buio della storia del festival, il giovane Berlusconi prese contatto con l’amministrazione comunale per comprarsi, insieme con i diritti televisivi, l’intero baraccone dell’Ariston. Ma i furbi e saggi democristiani, a cominciare dall’indimenticabile sindaco Leo Pippione, gli risposero no, grazie. Anche a piazza del Gesù il festival, come del resto la Rai, erano vissuti, più che come un campo di battaglia irti di sterpi, come un vivaio in fioreper alleanze e combinazioni. Ogni capotribù aveva d’altra parte il suo impresario di fiducia della canzonetta, Aragozzini stava con De Mita, Ravera con Forlani, Radaelli con Andreotti, per cui a Sanremo, come negli studi televisivi e nelle case degli italiani, arrivavano misteriosi e ancor più misteriose cantanti, spesso napoletani, di cui s’ignorava il patronage. Durò fino al fatidico 1989. Una volta defenestrato De Mita, in sincronia con il festival Forlani attaccò “la Piovra” – poi venne giù tutto.
Così, oltre che terra di conquista, ora la Rai è scatola nera del potere e theatrum mundi, nel senso che nell’ormai compiuto spappolamento delle culture politiche i vincitori di turno si ritengono in dovere di manifestare il comando attraverso nomine, consacrazioni, promozioni, manipolazioni, omissioni e censure, favoritismi, marchette, sviluppi sentimentali e d’alcova (mai sfuggiti peraltro ai servizi segreti). Da tale premessa, ieri e oggi, traggono origine le interviste in ginocchio la domenica pomeriggio, le illustrazioni di grandi opere e firme di contratti in seconda serata, le dirette negate o concesse a quello o a quell’altro evento, gli spazi imposti a reti unificate, a parte qualche flebile lamento in Commissione di Vigilanza, ma quasi sempre con la spontanea complicità di dirigenti e funzionari che, bravi come nessun altro ad annusare il cambio di vento, da un trentennio cercano di indovinare, anticipare o comunque assecondare i desiderata dei nuovi padroni – pur disponendosi a cogliere per tempo l’arrivo dei nuovi.
Da questo punto di vista un buon metro rivelatore resta la fiction, cuii leader e i loro staff, non di rado piuttosto arruffoni, attribuiscono una specie di potere magico nella costruzione del senso con immediata ricaduta elettorale, per cui eccoti quella sul Carroccio e quella su Di Vittorio, quelle sui santi, i papi e le suore, o sui futuristi, il Risorgimento, Edda Ciano, però anche Nenni, la mafia, l’antimafia, i gay, gli immigrati, le foibe...
Di tale grossolana impostazione il festival di Sanremo rappresenta la continuazione con fantasmagorici mezzi, più o meno subliminali, dal bacio lesbico al capriccio imperiale di far esibire Apicella, dal Povia di “Luca era gay”, ma è guarito, alle inquadrature di riguardo per Scajola, dall’ostensione della famiglia più numerosa d’Italia (16 figli, 2015) alla richiesta leghista di canzoni in dialetto veneto. Ma poi tutto regolarmente si abbassa e l’addomesticamento della Destra, per dire, si disvelò nel 2003 grazie a supposte raccomandazioni di An proprio a Sanremo e poi a un giro di piccanti interrogazioni che portarono Luca Barbareschi, deputato di quel partito, a riconoscere amaramente: «Siamo stati capaci di portare in video solo delle zoccole».
Per la verità, sempre da quell’area che oggi si scatena contro l’ultimo Sanremo si avvertirono anche le pressioni dei “Tullianos”, cioè dei parenti della donna del capo improvvisatisi produttori. Ma tutto questo è accaduto più o meno anche con Berlusconi, con l’Ulivo e i dalemiani, di nuovo con Berlusconi, di nuovo con l’Unione e poi ancora con Berlusconi, quindi con Renzi e compagnia cantante in un’ininterrotta saga all’italiana che tiene assieme la lobby di San Patrignano e la terrazza gauchiste, l’editto di Sofia e l’imperdibile saga legaiola del “Barbarossa”, coeva al finto spostamento di Rai2 a Milano, fino all’entusiasmo riformatore, all’ottimismo di Stato e al nuovo rinascimento propagato dal giovane premier rottamatore, secondo cui la Rai andava «restituita al paese», figurarsi.