il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2023
Sud Sudan, due eserciti e tante superpotenze
Sulle piste dell’aeroporto di Khartoum c’è un enorme via vai in questi giorni. Le visite di responsabili politici internazionali, programmate o a sorpresa, si susseguono ad un ritmo sostenuto. Il Paese sta vivendo una congiuntura politica incerta e opaca. Prendiamo ad esempio la giornata dell’8 febbraio. Mercoledì scorso, nella capitale del Sudan, sono sbarcati tanto emissari occidentali – statunitensi, francesi, britannici, norvegesi, tedeschi e dell’Ue – quanto il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. In piena guerra contro l’Ucraina, e in un contesto di tensioni per la presenza del gruppo paramilitare russo Wagner nella regione del Sahel, chi può credere a una semplice coincidenza di calendario? Qualche giorno prima c’era stata a Khartoum anche la visita non annunciata di Eli Cohen, ministro degli Esteri israeliano, la prima in Sudan. E si moltiplicano i viaggi di andata e ritorno in Ciad, tra Khartoum e Il Cairo e tra la capitale sudanese e gli Emirati Arabi Uniti. Mentre in Sudan parti civili e militari discutono di un periodo di transizione democratica per risolvere la crisi politica in cui il Paese versa dal colpo di Stato del 2021, le manovre delle potenze straniere creano le basi di un caos regionale e internazionale.
“È il problema del Sudan. Abbiamo due corpi militari indipendenti l’uno dall’altro – osserva Babiker Faisal, leader del partito Unionista democratico ed ex ministro dell’informazione – e entrambi cercano di stringere alleanze per difendere i propri interessi. Noi civili riteniamo che questi giochetti siano pericolosi per la stabilità del Paese”. Dal rovesciamento di Omar al-Bashir nell’aprile 2019, in Sudan si contrappongono l’esercito nazionale, guidato dal generale Abdel Fattah al-Bourhan, e le Forze di sostegno rapido (RSF), comandate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come “Hemetti”. La rivalità tra i due campi cresce. Abdel Fattah al-Bourhan è noto per essere vicino al vecchio regime e agli islamisti. Da parte sua, Hemetti non gode di una buona reputazione, essendo l’RSF erede dei janjawid, i miliziani ausiliari di Khartoum durante il conflitto del Darfur, e cerca di far dimenticare questa parentesi sostenendo ufficialmente i civili. Il primo guida la giunta che, il 25 ottobre 2021, ha rovesciato il governo civile e posto fine alla transizione democratica. Il secondo è il vicepresidente della stessa giunta. Anche se i legami tra Khartoum e Mosca risalgono all’epoca sovietica, anche se i soldati sudanesi vengono regolarmente addestrati in Russia, anche se Sergej Lavrov è venuto ufficialmente a discutere di cooperazione, non si può escludere che Hemetti abbia svolto un ruolo nella recente visita del ministro russo. I suoi legami con il gruppo Wagner sono pubblicamente noti e, il giorno dell’invasione dell’Ucraina da parte dei soldati russi, mentre era a Mosca, Hemetti aveva difeso il “diritto del popolo russo a difendersi”. La visita di Sergej Lavrov, annunciata appena qualche ora prima, si può considerare come la risposta di Hemetti ad Abdel Fattah al-Bourhan, che aveva invitato il ministro degli Esteri israeliano? “I due uomini cercano entrambi l’appoggio degli Stati Uniti – sottolinea un ricercatore sudanese, che preferisce conservare l’anonimato -. Al-Bourhan sa che la via più diretta per Washington passa per Tel Aviv”. Eli Cohen ha aiutato molto il generale, annunciando un futuro trattato di pace tra i due Stati, ma solo “dopo il trasferimento del potere ad un governo civile che si costituirà nell’ambito del processo di transizione in corso nel Paese”.
Molti hanno letto in queste parole un messaggio indiretto del generale al-Bourhan. In breve: “Non lascerò il potere così”. “Non spetta ai militari prendere questo tipo di decisioni – osserva Yasser Arman, uno dei pilastri delle Forze per la libertà e il cambiamento-Comitato centrale (FFC-CC), il braccio politico della rivoluzione -. Senza il sostegno della popolazione, non possono restare al potere. E l’appoggio del popolo non ce l’hanno”. La questione è sapere chi, tra al-Bourhan e Hemetti, rinuncerà al potere, cosa sarà pronto a cedere e a che condizioni. Il Sudan sta vivendo da due mesi un processo politico delicato e incerto. Il 5 dicembre 2022 le parti militari e civili hanno firmato un accordo destinato a porre fine al colpo di stato. Per la parte civile è stata la coalizione FFC-CC a negoziare l’accordo. Per la parte militare, hanno firmato tanto al-Bourhan che Hemetti. Ma in Sudan niente è mai semplice. Il 5 dicembre non ha segnato affatto la fine della parentesi militare, ma l’inizio di un rompicapo politico che cresce di giorno in giorno. “Gli americani sono molto seccati: sosterranno un militare, al-Bourhan, che in realtà è contrario all’accordo ma è filo-israeliano, o un altro militare, Hemetti, che è favorevole all’accordo, ma accoglie Wagner?” si interroga uno degli attori del processo. Al momento cinque questioni spinose sono in discussione: lo smantellamento del regime militare-islamista instaurato da Omar al-Bashir in trent’anni di regno; la revisione dell’accordo di pace di Juba tra il governo di transizione e la maggioranza dei gruppi armati sudanesi, che si è rivelato un fallimento; la giustizia di transizione; la questione del Sudan orientale, in preda a tentazioni separatiste; la riforma del settore militare e della sicurezza, che deve pervenire a costituire un unico esercito nazionale. Queste discussioni devono pervenire ad un accordo finale e alla formazione di un governo civile di transizione che porti a elezioni democratiche. Il processo si svolge sotto l’egida del Meccanismo trilaterale, creato nel maggio 2022, composto dall’UNITAMS, la Missione integrata di assistenza alla transizione delle Nazioni Unite in Sudan, l’Unione Africana e l’IGAD, un’organizzazione di cooperazione regionale. È inoltre sostenuto dalla cosiddetta Troika (Stati Uniti, Gran Bretagna, Norvegia), dall’Unione Europea e dai donatori internazionali. Tutti ritengono che, malgrado la sua fragilità, non esista una soluzione alternativa a questo processo. È dunque per consolidarlo che gli emissari statunitensi, britannici, francesi, tedeschi, norvegesi e dell’Ue, sono venuti a Khartum. “Speriamo che facciano pressione sui militari”, spiega Yasser Arman. Ma il tempo non è dalla parte dei civili: instabilità e insicurezza si propagano in tutto il Paese.
Il rumore degli stivali dei miliziani risuona al confine occidentale del Paese, tra Darfur, Repubblica Centrafricana e Ciad, proprio dove sono presenti i paramilitari di Wagner, impegnati nello sfruttamento delle miniere d’oro. All’inizio di gennaio, Hemetti ha chiuso il confine tra Sudan e Repubblica Centrafricana, affermando di voler impedire il passaggio dal Sudan di uomini armati assoldati per rovesciare il presidente centrafricano Touadéra. Secondo quanto riferito, membri di Wagner sarebbero rimasti uccisi nei combattimenti, sia nella Repubblica Centrafricana che al confine con il Ciad. Il ritorno in Darfur, via il Ciad, delle milizie sudanesi che combattono in Libia, legate a Idriss Déby, presidente del Ciad, e nemiche di Hemetti, è annunciato come imminente. “Stiamo assistendo ad un prolungamento del conflitto ucraino nel continente africano – afferma Yasser Arman -. I suoi protagonisti, l’Occidente e la Russia, lo stanno estendendo al Mali, alla Repubblica Centrafricana e al Sudan”. “Serve un accordo definitivo e in fretta, in modo tale che i civili possano riprendere in mano la situazione”, aggiunge Babiker Faisal, augurando buona fortuna al futuro primo ministro. Tanto più che all’est si sta svolgendo in sordina un’altra battaglia tra grandi potenze, Russia, Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti e Turchia, per il controllo dell’accesso al Mar Rosso. I controllori del traffico aereo di Khartoum non staranno con le mani in mano.
(Traduzione di Luana De Micco)