il manifesto, 12 febbraio 2023
Da "Narrare humanum est. La vita come intreccio di storie e immaginazioni" di autori vari (Utet)
Ci sono molte cose sulla memoria che abbiamo dimenticato: l’ha notato Paolo Rossi che, con Frances Yates, ha riscoperto l’antica tradizione dell’arte della memoria, un’arte che dalla Grecia classica penetra a Roma e percorre la cultura europea per secoli; un’arte che insegnava a controllare gli spazi della mente, per costruirvi palazzi, giardini, percorsi cui affidare i ricordi; un’arte che conosceva il potere delle immagini e la forza creativa delle associazioni, che sfruttava le emozioni e aveva paragonato il lavoro della memoria stessa a quello che accade nei sogni.
Faccio parte di una generazione che si è ribellata all’idea di imparare qualcosa a memoria, perché ha visto in questo una forma di passività, perché l’ha associato al nozionismo. C’erano componenti giuste nella nostra ribellione, ma c’era anche una componente di debolezza. Non ci rendevamo infatti conto che esiste una dimensione creativa della memoria, legata al modo in cui assimiliamo e trasformiamo le parole che leggiamo o che sentiamo raccontare, i versi che sentiamo recitare. Di questo appunto ci occuperemo.
VEDREMO ALCUNI ESEMPI di come la memoria, in diversi momenti della Storia, e in modi diversi, abbia agito come uno specchio, come un dispositivo cioè in cui, rispecchiandoci in un altro (appunto nelle parole di uno scrittore o di un poeta), riconosciamo noi stessi, costruiamo dunque il nostro io e diamo vita alla nostra narrazione.
Cominciamo dalle origini, quando il rapporto fra memoria e poesia era molto forte, potremmo dire essenziale. In una società orale, che non conosce la scrittura, la memoria, Mnemosyne, è una dea. Ricordare è infatti essenziale per costruire una comunità, per dar vita a un patrimonio comune di conoscenze e di narrazioni. È affascinante quel che di Mnemosyne dice Esiodo, poeta del VII secolo a.C., nella Teogonia, un poema che canta le origini dell’universo e le storie degli dèi: le Muse furono generate da Mnemosyne (cioè dalla Memoria) e da Giove, «perché fossero oblio dei mali, sollievo agli affanni». La poesia dunque è generata dalle Muse, che nascono da Zeus e dalla Memoria, da Mnemosyne. Cantano gli dèi e gli eroi, costruiscono dunque la memoria della comunità, e con essa i valori essenziali che ne costituiscono l’identità, che ne regolano la vita; nello stesso tempo, con una specie di magia, danno l’oblio, fanno dimenticare ciò che turba e angoscia.
La magia della poesia ricorda la magia dell’amore, un legame cui non si sfugge, un incantesimo che penetra nell’animo e che vi si installa con forza, vi costruisce i propri fantasmi. È un potere che la poesia condivide con l’eloquenza, con la voce dell’oratore.
Molto interessante è per esempio quel che scrive Gorgia da Lentini, un sofista che visse tra il V e il IV secolo a.C., un oratore così potente che ad Argo vietavano di andare a sentire i suoi discorsi. Nell’Encomio di Elena, in cui prende appunto le difese di Elena accusata di aver tradito il marito e di aver causato la guerra di Troia, scrive: «La parola è un possente signore, che con corpo piccolissimo e affatto invisibile compie azioni veramente divine: può infatti far cessare il timore, togliere il dolore, produrre la gioia e accrescere la compassione».
E ancora: «L’incanto divino che opera nelle parole avvicina il piacere, allontana il dolore: insinuandosi infatti nell’opinione dell’anima, il potere dell’incanto la ammalia e la persuade e la trasforma con il suo fascino».
PLATONE nello Ione fa dire a Socrate che il furore si trasmette come la forza del magnete attraverso gli anelli di una catena, dal dio, alla Musa, al poeta, al rapsodo che recita i versi, al pubblico. L’idea di una forza magica, potente della parola, accomuna quindi, sia pure in una prospettiva diversa, Platone e un esponente della sofistica come Gorgia.
Cosa resta di questa forza magica della poesia nell’età della scrittura? La parola scritta, dice Platone, perde questa capacità di incantamento, non è viva, non dialoga, non risponde. Nel Fedro Socrate racconta la storia del dio Theuth, che inventa la scrittura e si reca dal faraone proponendo di insegnarla a tutti gli egizi, come «farmaco della memoria e della sapienza». Ma, obietta il faraone, la scrittura produce in realtà dimenticanza e apparenza di sapienza. Il testo scritto appare infatti come artificiale deposito di memoria e come incapace di dialogare.
«In realtà, vedi caro Fedro, commenta Socrate, la scrittura ha questo grave inconveniente. È cosa del tutto simile alla pittura. Sai bene che i prodotti della pittura si presentano quasi fossero vivi. Ma provati a rivolgere una qualche domanda: silenzio assoluto. Lo stesso, ogni opera scritta.
L’impressione prima è che il libro parli e parlando intenda. Ma provati a domandargli qualche schiarimento di ciò che dice. Una cosa sola, unica e sempre uguale egli viene significando».
IN REALTÀ c’è una lunga tradizione per cui anche la parola scritta dialoga, risponde, è speculum animi dell’autore e a sua volta diventa uno specchio per noi che leggiamo, perché ci rispecchiamo in quello specchio, in quello specchio riconosciamo il nostro io, proprio mentre diamo ospitalità all’altro, con i vantaggi e i rischi che questo comporta (è stato notato che hostis, nemico, e hospes, ospite, sono pericolosamente vicini).
Marcel Proust, in polemica con John Ruskin, ha dato una bellissima definizione: parla infatti di «quel meraviglioso miracolo della lettura che è la comunicazione nel cuore della solitudine», di quel meraviglioso paradosso per cui si è soli, ma la solitudine è popolata delle voci degli scrittori che stiamo leggendo, che ci aiutano a riconoscere noi stessi, a trovare il nostro «ritmo segreto». È interessante che Proust traduca il testo di Ruskin sulla lettura (intitolato Sesamo e gigli, la parola magica che apre ad Ali Babà l’accesso alla caverna dove è custodito il tesoro dei quaranta ladroni) e nello stesso tempo entri in polemica contro la sua idea di una funzione pubblica, democratica della lettura.
E per contrastarla scrive una lunga introduzione Sulla lettura, che si apre con la rievocazione dei giorni dell’infanzia in cui la lettura del libro preferito veniva strappata ai ritmi della vita familiare, difesa dalle intrusioni, collocata in luoghi nascosti e inaccessibili, consacrata alla solitudine. Queste pagine, ha scritto Compagnon, preannunciano Combray, e quindi la Recherche, sono le prime che trovano il tono giusto del romanzo che verrà, ci mostrano come, proprio nel momento in cui prende nettamente le distanze dalle idee di Ruskin sulla lettura, Proust sia sollecitato dal suo testo, spinto dall’amore e dall’ammirazione che nutre per lui a scavare dentro di sé per trovare la propria voce.