Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  febbraio 08 Mercoledì calendario

Da "Narrare humanum est. La vita come intreccio di storie e immaginazioni" di autori vari (Utet)

Non lasciamoci ingannare dai significati che la parola mýthos ha assunto nelle sue reinterpretazioni moderne, il nostro mito, il francese mythe, l’inglese mythos ecc., ossia sostanzialmente racconto favoloso, e come tale privo di credibilità. Agli albori della letteratura greca, in Omero, in Esiodo e nei poeti filosofi posteriori, i cosiddetti presocratici, mýthos indica sì discorsi o racconti − ma non certo incredibili. Al contrario. Tant’è vero che nell’epica arcaica sono definiti mýthoi discorsi di carattere indiscutibilmente autorevole.

È definito mýthos il discorso che nel poema di Esiodo il falco predatore rivolge "con forza" all’usignolo, la sua preda. Allo stesso modo, in Omero viene definito mýthos il discorso pronunziato con veemenza da maschi guerrieri sul campo di battaglia: quando Posidone respinge l’ordine di Zeus di abbandonare la lotta, la sua risposta "dura e potente" è definita mýthos. Non diversamente sono definiti mýthoi le orazioni pronunziate, in assemblea, da eroi che posseggono l’autorità necessaria per farlo: come Agamennone quando caccia via Crise, minacciandolo; o Achille quando respinge gli ambasciatori di Agamennone. Il mýthos dell’epica è un discorso assertivo, che chiede di essere eseguito: è un discorso autorevole che, soprattutto, è pronunziato da un locutore autorevole. Colui che pronunzia un mýthos - cioè il locutore - deve essere un personaggio fornito di autorità, tale caratteristica è insieme la radice e la giustificazione dell’efficacia posseduta dal mýthos.


Con il trascorrere del tempo la cultura greca comincerà a usare la parola mýthos per designare racconti affascinanti ma, nello stesso tempo, privi di quella credibilità che sarà piuttosto appannaggio del lógos o della historíe, la ricerca dello storico. Eppure, il racconto mitico, pur consapevole ormai del proprio carattere di finzione, continuerà a esercitare una straordinaria presa su chi lo ascolta o chi assiste alla sua rappresentazione. Ascoltiamo la voce di un altro celebre sofista, Gorgia di Lentini (V-IV secolo a.C.), allorché parla dei miti messi in scena dai poeti tragici. "La tragedia fiorì e divenne famosa [...] offrendo con i suoi miti e le sue passioni (mýthois kái páthesi) un inganno (apáte) in base al quale [...] chi inganna è più giusto (dikaióteros) di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio (sophóteros) di chi non è ingannato." Questo paradosso di Gorgia è tanto seducente e sconcertante, quanto ricco di una profonda verità. Secondo Gorgia la poesia tragica, che si basa sul mito, è sì un inganno, perché si tratta pur sempre di finzione; ma è un inganno sia conforme alla giustizia, a differenza di qualsiasi altro inganno; sia moralmente e spiritualmente vantaggioso per chi ne è vittima. Messo di fronte al mito lo spettatore presta fede all’incredibile, perché l’inganno di cui è vittima è giusto e lo rende migliore.


Dopo questo breve viaggio attraverso i mýthoi dei greci, per approfondire i diversi tipi di discorso designati da questa parola - le loro caratteristiche e i loro effetti - forse cominciamo a capire meglio che cosa significa in generale "narrare". Intravediamo già, cioè, l’oscillazione che è caratteristica di questa pratica, così profondamente umana, fra finzione e accrescimento della conoscenza, fra "inganno", come dice Gorgia, e acquisizione della saggezza.


Per andare più a fondo nella questione del narrare, però, possiamo uscire dall’antichità classica per fare una puntata fino agli albori del Romanticismo inglese, quegli anni gloriosi che videro Samuel Taylor Coleridge e William Wordsworth comporre le loro celebri Lyrical Ballads, pubblicate nel 1798. Si tratta di poesie a carattere specificamente narrativo, come dice il loro stesso nome, "ballate", nelle quali si raccontano vicende destinate a divenire celebri, come quelle che figurano nella Ballata del vecchio marinaio: con le incredibili avventure della nave che, spinta oltre l’Equatore verso l’Antartide, perché vittima di una maledizione, rimane intrappolata in una terribile tempesta e finisce nei pressi del Polo Sud.

Rievocando la composizione di queste ballate nella sua Biographia Literaria, Coleridge riassumerà in questo modo l’intento che lo aveva animato: "I miei sforzi sarebbero stati rivolti a persone o caratteri soprannaturali [...] ma in modo tale da proiettare su di loro, dalla nostra intima natura, un interesse umano e una parvenza di verità sufficienti a conferire a queste larve dell’immaginazione quel momento di volontaria sospensione della incredulità nel quale consiste la fede poetica". Secondo Coleridge, dunque, nel realizzare narrazioni di questo tipo l’autore deve avere la capacità di suscitare nel fruitore ciò che viene definito "fede poetica", ossia un atteggiamento di disponibilità nei confronti delle vicende narrate che sfocia in una momentanea sospensione dell’incredulità. Questa sospensione della incredulità è possibile raggiungerla solo proiettando sulle "larve dell’immaginazione", che costituiscono la materia della narrazione, un "interesse umano".


A mio parere, questa definizione che Coleridge dà della efficacia e degli effetti del narrare, è di una straordinaria profondità. Egli descriveva già ciò che per l’appunto accade a ciascuno di noi anche oggi, quando ascoltiamo o leggiamo un racconto, o quando lo vediamo drammatizzarsi sotto forma di teatro, cinema o fiction televisiva.


Mentre seguiamo lo svolgersi delle diverse vicende, sia che stiamo ascoltando il racconto di un amico che torna dal Brasile, sia che stiamo leggendo I tre moschettieri o L’amica geniale, sia che stiamo assistendo alla proiezione di 2001: Odissea nello spazio o dell’ultima stagione del Trono di Spade o House of Cards, se l’autore di queste invenzioni ha saputo proiettare sulle larve della propria immaginazione un vero "interesse umano", come lo chiama Coleridge, la nostra incredulità si sospende. A quel punto accettiamo la finzione come se fosse realtà, anzi, non ci poniamo neppure la domanda se ciò che ci viene narrato corrisponda a verità o falsità, questa domanda semplicemente non sarebbe pertinente. Mentre sospendiamo la nostra incredulità per entrare nel regno della fede poetica, noi siamo sì "ingannati", come diceva Gorgia, perché stiamo usufruendo di finzioni, ma quell’inganno è "giusto", perché chi narra ci permette di conoscere e comprendere cose nuove, accrescendo la nostra saggezza.