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 2023  febbraio 12 Domenica calendario

Incipit di "L’umanità è un tirocinio" di Domenico Starnone (Einaudi)

Memoria

Mi serviva un punto di partenza, ne ho trovati almeno due: la nascita di mio fratello Toni e un litigio notturno tra mio padre e mia madre. La spinta a scrivere è derivata probabilmente da quelle minuscole schegge di memoria. Sono frammenti di notti atterrite, non li chiamo nemmeno ricordi. Mi sembrano sentimenti, o forse sono già finzioni.

1.

La nascita di mio fratello Toni, nel 1948, ha a che fare con un disegno di cicogna. Si tratta della cicogna che lo portò nel mondo e che mi ha smosso la testa per parecchi anni. L’ho tirata fuori, però, solo quando ho letto La mia Africa. Proprio nel punto in cui Karen Blixen dice che da bambina le raccontavano una favola accompagnando le parole con disegni — i quali, come nella favola, alla fine avrebbero composto magnificamente una cicogna — mi sono ricordato che anche io avevo in mente una cicogna disegnata, solo che la mia si componeva ottimamente in principio e si scomponeva orrendamente alla fine. Sarebbe bello scegliere da piccoli ciò che ci segna, ma non succede e allora bisogna arrangiarsi con i segni che ci capitano.

Il disegno della cicogna lo aveva fatto — per me che avevo cinque anni, e per mio fratello che ne aveva tre — nostro padre quando ci aveva raccontato che stava per arrivare un terzo fratello e che, a portarcelo in dono appeso al becco, sarebbe stata nientemeno una cicogna, esattamente quella che intanto stava venendo fuori, splendida, viva, dai suoi tratti di matita. Quanto mi dev’essere piaciuto quell’animale, mio padre era un artista straordinario. Gli volevamo molto bene quando era di buonumore e ci disegnava tutti, mia madre, mia nonna, mio zio, mio fratello, me, e ora anche quell’uccello meraviglioso che portava il fratellino e si chiamava cicogna.

Poi una notte io e mio fratello ci svegliamo per lo spavento, nostra madre sta lanciando urla strazianti. Restiamo a letto per un po’, io non so che fare. Quando le grida cessano, ci decidiamo a uscire in corridoio. Non c’è nessuno, nemmeno in cucina, e la porta della camera da letto dei nostri genitori è chiusa. Aspettiamo, la porta si apre. Compare nostra nonna, o forse la levatrice, o una nostra zia, chi lo sa: io vedo solo che porta lenzuola sporche di sangue. E anche la figura indefinita di donna, quando ci vede, pensa al sangue e basta, dice a disagio, in dialetto (tutto accade in napoletano, durante la mia infanzia): «Tornate a dormire, mamma sta bene. La cicogna ha portato il fratellino, ma poi se lo voleva riprendere e vostro padre, meno male, l’ha ammazzata».

2.

Il litigio tra i miei genitori ha il colore della striscia di luce che arriva dalla porta socchiusa. Mi sono svegliato di soprassalto, mio padre urla. È pazzo di gelosia e umiliato dal suo stesso ingelosirsi, sta gridando a mia madre le sue ragioni. La furia dilaga nel suo napoletano di ogni giorno, anche la mia angoscia ha quella lingua. Quand’ecco che lui, scombinando la notte, la paura che ho delle sue rabbie, la sua stessa tonalità, scaglia contro mia madre una parola misteriosa — vanesia — incalzandola sempre più mentre lei piange: vanesia, vanesia, vanesia.

A me «vanesia», malgrado la paura, sembra un suono pregiato, più aggressivo, più sprezzante di quelli dialettali, e tuttavia flessuoso, elegante. Mio padre stesso, per articolarlo, è costretto a cambiare tonalità, a scandirlo bene, a non trascurare nessuna vocale. Intuisco che è una parola dei libri, che l’ha levata furibondo dalla scrittura e l’ha innestata dentro la voce napoletana. Lo ha fatto per sottolineare la sua superiorità, per mortificare meglio mia madre. Ora scrittura e voce si urtano mescolandosi. Mi sento colpevole perché quella parola mi piace.

3.

La mia voglia di scrivere comincia molto dopo quelle notti, eppure non ho dubbi che in esse ha le radici. È probabile, naturalmente, che quella passione mi derivi anche dalla lettura di qualche testo ben rifinito: Cuore, per esempio, che il maestro mi aveva fatto avere una volta che ero malato, e l’avevo letto appassionatamente malgrado la febbre. Ma sono quasi certo che l’origine è nella finzione ammaliante di cicogna che di colpo spiccia sangue vero, nel dialetto violento di mio padre rotto ancora più violentemente da «vanesia», in quei suoni del mondo che sbandano ogni volta che scommetto di poter fare — di quella notte e delle sue voci — scrittura.

(1997)