Anteprima, 9 gennaio 2023
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Biografia di Gianluca Vialli
Gianluca Vialli (1964-2023). Calciatore. Allenatore. Dirigente sportivo. Da calciatore ha giocato per Cremonese (1980-1984), Sampdoria (1984-1992), Juventus (1992-1996) e Chelsea (1996-1999). Ha vinto due scudetti (Sampdoria 1991, Juventus 1995) e tutte e tre le Coppe Europee (Champions League con la Juventus nel 1996, Uefa con la Juventus nel 1993, Coppa delle Coppe con la Sampdoria nel 1990). In Nazionale 59 presenze e 16 gol (terzo agli europei 88 e ai mondiali 90). Settimo nella classifica del Pallone d’Oro 1988 e 1991, 8° nel 1987, 19° nel 1995, 23° nel 1989. Da allenatore ha guidato Watford e poi Chelsea, con cui ha vinto una Coppa della Coppe (1998), una Supercoppa Europea (1998), una Carabao Cup (1998), una Fa Cup (2000) e Charity Shield (2000). È stato anche commentatore tv per Sky. Dal novembre 2019 era capo delegazione della nazionale italiana. «Ancora mi capita di sognare i gol sbagliati» • «Sono l’ultimo di cinque figli, Mila, Nino, Marco, Maffo. Forse per questo ho sempre voluto dare il massimo. Essendo un perfezionista non potevo accettare di perdere, già a otto anni, era una cosa istintiva. I miei genitori non mi hanno mai fatto grandi complimenti. Forse inconsciamente cercavo di conquistarli. Non avessi fatto il calciatore? Sarei comunque diventato uno sportivo professionista, possibilmente di uno sport di squadra perché mi piace il team spirit. Se non ci fossi riuscito sarei andato a lavorare nell’azienda di mio padre, come i miei tre fratelli. Ma non credo mi sarebbe piaciuto. È andata molto meglio come è andata» • «Suo padre non amava il calcio? “Zero, pensava solo al lavoro, era un costruttore. Oggi ho il rimpianto di non averli coinvolti abbastanza: loro non chiedevano di venire a vedere le partite, io ero concentrato sugli allenamenti e non ho mai insistito, forse avrei dovuto: nella mia famiglia non siamo stati bravi a dimostrarci l’affetto”. Il suo background familiare la rendeva diverso dal calciatore medio. Se ne accorgeva? “La verità è che, appena entriamo in uno spogliatoio, diventiamo parecchio simili. Alla Samp, poi, avevamo tutti più o meno la stessa età, la stessa filosofia di vita, ed eravamo legati da un senso di appartenenza che aveva saputo creare il nostro presidente, Paolo Mantovani. Bastava parlargli mezz’ora e uscivi dal suo ufficio pensando di poter camminare sull’acqua”. Sta parlando di carisma? “Per noi era un padre che ci aveva dato una missione: sfidare lo status quo e dimostrare che anche una squadra piccola può competere e battere le grandi. Per questo, per anni, abbiamo tutti rifiutato le offerte delle altre squadre: dovevamo prima vincere lo scudetto”. Mantovani si comportava diversamente con lei e con Mancini? “Sì, perché avevamo caratteri differenti. Con me, che sono sempre stato concreto, preferiva essere pragmatico. Con Roby, che aveva lasciato casa quando aveva 14 anni, era sicuramente più affettuoso e presente. Credo che Roberto lo divertisse di più, ma si fidasse più di me, perché ero più costante”» (a Sara Faillaci) • Sul suo rapporto con Roberto Mancini: «Ci piaceva tanto stare insieme, eravamo come in trincea: io coprivo le spalle a lui, e lui a me. Ci sentivamo al sicuro, condividevamo tutto, ogni più piccolo segreto. Ancora oggi custodisco quei pezzetti di storia con grande gelosia. Dormire uno di fianco all’altro per quasi dieci anni, e negli anni più belli della tua vita, crea qualcosa di indissolubile. È stato poi lui a voler andare in una stanza da solo... diceva che russavo la notte... bah, mi sa che non era vero! Invece, era lui che si svegliava perché voleva farsi da mangiare di notte! […] Vivevamo tra Quinto e Nervi, e gli allenamenti erano a Bogliasco: ci muovevamo anche con i mezzi pubblici, o il treno. Il ristorante a tre minuti da casa, il campo a cinque, era tutto vicino, e a quei tempi il nostro gruppo non pensava al successo o alla fama, eravamo io, Roberto, Pagliuca, Mannini, Lombardo, e tutti gli altri, tutti fratelli, con le nostre paure e le nostre sicurezze, che gli altri compensavano» (a Gabriella Greison) • «La sua forza era il “Delta” bassissimo, un differenziale quasi zero nel rendimento su sforzi ripetuti, vale a dire la potenza costante sull’arco di 15-20 scatti, finché il difensore avversario, magari più veloce, non crollava nel confronto fisico» (Edmondo Berselli) • «Com’è giocare nella Juve? “Un onore, e un onere. Senti il peso della maglia, il dovere di riconsegnarla piegandola per bene e riponendola un po’ più in alto di dove l’avevi presa. E poi Torino, che aveva fama di città fredda e grigia, in realtà è meravigliosa”. A guastare la poesia arrivò Moggi. Com’era? “Un dirigente che ti metteva nelle condizioni di dare il massimo; e i calciatori pesano i dirigenti da questo. Non dal mercato o dalla politica”. La gestione Moggi costò alla Juve la Serie B. “Quella Juve avrebbe potuto vincere 6 o 7 scudetti su 10, rispettando le regole. Ma poi la gola ha fatto sì che tentasse di vincerli tutti, non rispettando le regole”. Ma lei ha mai avuto la sensazione che gli arbitri vi favorissero? “No. Ne ho anche discusso con i colleghi. Vede, un calciatore tende sempre a pensare che gli arbitri stiano complottando contro la sua squadra. A volte diventa uno sprone a reagire e dare il meglio”. Lei fu testimone al processo per doping. La Juve fu assolta, ma venne fuori un largo uso di farmaci. “Posso parlare per me. Avrei potuto vivere più serenamente quella vicenda, come altri colleghi. Non ce l’ho fatta. Fu un’ingiustizia”. Zeman indicò lei e Del Piero. “Non voglio riaprire vecchie polemiche. È possibile discutere se sia meglio per una distorsione dare il Voltaren, o andare 15 giorni in montagna a riposare. Non è possibile mettere in dubbio i risultati di una carriera. All’inizio ci ho sofferto. Poi ho capito che se ti preoccupi di quello che pensano gli altri appartieni a loro”. Alla Juve prendevate anche la creatina. “Per qualche mese. Come tutti. Lecitamente”. In due anni vinceste lo scudetto e, nel 1996, la Champions. “Finale all’Olimpico di Roma. Segna subito Ravanelli, pareggia Litmanen. Grande partita, finita ai rigori. La chiude Jugovic segnando il quarto”. Lei quale doveva tirare? “Il quinto o il sesto. Fu un sollievo infinito. All’Olimpico avevo sbagliato un rigore al Mondiale del ’90 contro gli Stati Uniti, e mi ero rotto un piede tirandone un altro contro la Roma. Quella notte sapevo che era la mia ultima occasione per vincere la Champions. Pensi gli incubi, se no”» (ad Aldo Cazzullo) • «È stato, insieme a Fabrizio Ravanelli, il primo campione della Serie A ad emigrare nella Premiership inglese. Era il giugno del ’96 e aveva quasi 32 anni. La Juventus gli aveva offerto molti soldi, ma un contratto di un solo anno. Il Chelsea, vecchia squadra popolare di Londra guidata dal suo amico Ruud Gullit, gli proponeva metà stipendio, ma tre anni in squadra. Poche settimane dopo scorrazzava per King’s Road su una Vespa e pranzava al San Lorenzo, seduto al tavolo accanto a quello della principessa Diana. Non nascondeva la sua felicità: “È un sollievo essere a Londra. Qui il calcio ha una dimensione ancora umana”. Sei anni dopo, ha fatto in tempo a sperimentare anche la dimensione, per così dire, meno umana del football inglese. “Da allenatore hai molte più preoccupazioni. Non ti devi allenare, ma devi essere sempre un passo avanti agli altri. Pensare a loro. Motivarli. Mi sento responsabile di tutto ciò che succede nel club. Difficile rilassarsi, farci sopra una risata, perché sei quello che deve far filare tutto per il verso giusto”» (a Riccardo Orizio) • Con Gabriele Marcotti ha scritto un’autobiografia, The Italian Job, uscita prima in Inghilterra e poi in Italia (Mondadori 2007). Da ultimo ha firmato a quattro mani con Roberto Mancini La bella stagione, racconto dello scudetto vinto con la Sampdoria (Mondadori, 2021) • Nel libro Goals, 98 storie + 1 per affrontare le sfide più difficili (Mondadori, 2018) ha racconta la battaglia contro il tumore al pancreas, scoperto nel 2017 e per cui si è sottoposto a un intervento, a otto mesi di chemioterapia e sei di radioterapia. «Ne avrei fatto volentieri a meno. Ma non è stato possibile. E allora l’ho considerata semplicemente una fase della mia vita che andava vissuta con coraggio e dalla quale imparare qualcosa. Sapevo che era duro e difficile doverlo dire agli altri, alla mia famiglia. Non vorresti mai far soffrire le persone che ti vogliono bene: i miei genitori, i miei fratelli e mia sorella, mia moglie Cathryn, le nostre bambine Olivia e Sofia. E ti prende come un senso di vergogna, come se quel che ti è successo fosse colpa tua. Giravo con un maglione sotto la camicia, perché gli altri non si accorgessero di nulla, per essere ancora il Vialli che conoscevano. Poi ho deciso di raccontare la mia storia e metterla nel libro» (a Cazzullo) • «È successo in maniera improvvisa e l’ho affrontata come quando facevo il calciatore. Mi sono dato subito degli obiettivi a lunga scadenza: non morire prima dei miei genitori e portare le mie figlie all’altare quando si sposeranno. E poi degli obiettivi a breve scadenza: l’operazione, la degenza, la chemio, la radio, andare di nuovo in vacanza in Sardegna con un fisico da far vedere» (a Fabio Fazio, a Che tempo che fa, nel dicembre 2018) • «Io con il cancro non ci sto facendo una battaglia perché non credo che sarei in grado di vincerla, è un avversario molto più forte di me. Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato, però non posso farci niente. È salito sul treno con me e io devo andare avanti, viaggiare a testa bassa, senza mollare mai, sperando che un giorno questo ospite indesiderato si stanchi e mi lasci vivere serenamente ancora per tanti anni perché ci sono ancora molte cose che voglio fare» (nel giugno 2021, nella miniserie Rai Sogno Azzurro) • Sui giornali dell’11 maggio 2006 comparve la notizia dell’arresto di Michele Padovano, ex attaccante della Juventus e di altre squadre, nell’ambito di un’indagine su un traffico di hascisc condotta dal magistrato torinese Antonio Rinaudo. Vennero pubblicati anche i testi di alcune intercettazioni riguardanti altri due ex juventini, Nicola Caricola, indagato per cessione di stupefacenti, e Gianluca Vialli. La posizione di Vialli, che nelle intercettazioni viene chiamato «Besson», non era penalmente rilevante, si evinceva, però, che fosse un abituale consumatore di cocaina: «Non sono un santo: a carriera finita e prima di diventare padre, in qualche serata fra amici mi è capitato di fumare una canna. Penso sia successo alla maggioranza delle persone. Ma dalla cocaina sono sempre rimasto distante, perché so quanto faccia male. Questa storia ha messo a dura prova il mio equilibrio di padre, di figlio e di marito. Nel corso della mia carriera sono stato definito gay, e non lo sono pur non avendo nulla contro gli omosessuali; sono stato definito dopato, e non lo ero; cocainomane È stata l’ultima etichetta, e per quanto abbia le spalle larghe questa mi ha fatto vacillare. Trovo che il mio caso sia lo specchio del modo sbagliato con cui vengono trattati certi argomenti in Italia. A parte la falsità dell’assunto, la mia immagine È stata sporcata per un fatto che penalmente era comunque irrilevante. Oggi, quando vado al ristorante, evito di fare pipì anche se mi scappa, perché ho paura che la gente pensi “ecco, Vialli va alla toilette a tirare cocaina”. È un meccanismo infernale» (a Paolo Condò) • Sposato dal 2003 con l’arredatrice sudafricana Cathryn White-Cooper. Hanno due figlie, Olivia e Sofia • «Ai tempi della Samp era fidanzato con una ragazza di Cremona, Giovanna, con cui è stato 13 anni ma che alla fine non ha sposato. “Ero innamorato, ma la mia priorità in quegli anni è sempre stata il calcio, e quasi senza accorgermene ho evitato tutto quello che avrebbe potuto essere una distrazione: matrimonio, figli. Ho iniziato a pensarci solo quando ho smesso, ma a quel punto il sentimento con Giovanna si era spento”. Ha conosciuto sua moglie Cathryn, sudafricana, a Londra. “Si stupì che non l’avessi baciata la prima sera, da buon italiano. Ma io non sono mai stato aggressivo con le ragazze, e poi sentivo molto la responsabilità di essere giocatore e allenatore del Chelsea, non mi sentivo pronto. Alla fine però è successo”» (a Faillaci) • «Il sesso è sempre stato il mio punto debole. Lo facevo il giorno prima e spesso lo stesso giorno del match. Mi faceva giocare meglio» • «Da ragazzo cosa votava? “Partito repubblicano, come papà”. Nella Seconda Repubblica cosa votava? “Per fortuna ero già a Londra. La Seconda Repubblica me la sono risparmiata» (a Cazzullo) • Morto il 6 gennaio al Royal Mardsen Hospital di Londra, dove era ricoverato da qualche settimana in seguito al peggioramento delle sue condizioni di salute dovute al tumore del pancreas diagnosticatogli nel 2017. I suoi funerali saranno celebrati oggi a Londra in forma privata.