Anteprima, 16 gennaio 2023
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Biografia di Gianfranco Baruchello
Gianfranco Baruchello (1924-2023). Pittore. «Non ha mai smesso di definirsi un pittore. Neanche quando spediva, per posta aerea, lettere ai grandi pensatori della storia, Leopardi, Freud, Spinoza, o scriveva al Pentagono offrendo ninnoli antistress per i soldati in Vietnam, oppure bisbigliava parole dentro flaconi di vetro da sigillare nella sua Oblioteca, la biblioteca delle dimenticanze. Morto sabato mattina a Roma all’età di 98 anni, Gianfranco Baruchello ha continuato a sentirsi un pittore fino all’ultimo, senza pentimenti. Pochi mesi fa, a chi gli chiedesse ragioni della sua vocazione eclettica, confessava: “Tutto serviva al mio lavoro di pittore, più che alle mie attività di cineoperatore selvaggio”. Poche parole sobrie. Orfane di egolatria. Con una vena di romanticismo che aleggiava attorno a quel termine (pittore) dal suono antico rispetto alla versatilità della sua ricerca ibrida di linguaggi. Così il maestro dell’arte concettuale italiana che aveva stregato persino Duchamp, si è dedicato contemporaneamente al disegno, alla scultura, all’installazione, al video, alla performance, con una libertà tanto vorticosa da mandare all’aria ogni etichetta. E ogni traccia della sua formazione originaria. Nato a Livorno, laureato in giurisprudenza con un inizio di carriera nel settore chimico e col lancio di una società di sperimentazione biomedica, abbandonò la via aziendale per l’arte, “per la pittura” ribadiva caparbio. Da Parigi a New York, frequentò scrittori e poeti, artisti come Sebastian Matta o John Cage. Studiò filosofia e antropologia, lavorò accanto ai Nouveaux réalistes di Pierre Restany, espose a Manhattan dal mitico gallerista imprenditore Sidney Janis (altro eclettico), mescolando i modi del pop a una sintesi radicale. Nutrendosi di immagini massmediatiche, televisive, aveva optato infatti per un azzeramento assoluto, fino a ridurre tutto in coriandoli. Miniaturizzando il nostro paesaggio quotidiano in un nubifragio di dettagli, Baruchello ha costruito un palazzo enciclopedico con mattoni di concetti sociopolitici, ambientali (precorrendo i tempi), letterari e psicanalitici. Ancora a novant’anni portati dall’alto della sua figura statuaria, spiegava con soave accento toscano la sua idea di arte, come cibo per la mente. “In atelier nascono cibi che si chiamano fantasia e immaginazione” diceva, anzi sussurrava, rollando fra le mani il pomello del suo bastone con eleganza da gentiluomo di campagna, dal bel profilo etrusco. Gli mancavano i segugi, ma la tenuta ce l’aveva. Quella che, durante gli anni di piombo, decise di fondare sulle colline romane, in via di Santa Cornelia; la celebre Agricola Cornelia. Qui ettari su ettari di terra allora destinati alla speculazione edilizia, sono stati riconvertiti in natura. Una sorta di happening ecologico lo ha visto bonificare e piantare alberi, erbe, cespugli, orti, giardini, secondo uno schema preciso: una mappa del cervello, un luogo fisico dove coltivare il pensiero. Ora, la tenuta è sede della fondazione che porta il suo nome, sostiene autori emergenti ed è aperta a ricercatori interessati a studiare quel sistema complesso di relazioni fra etica ed estetica, cultura e creato che ha animato per oltre sessant’anni la sua opera» [Gatti, Rep].