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 2023  gennaio 10 Martedì calendario

Biografia di Franco Balmamion (Franco Balma Mion)

Franco Balmamion (Franco Balma Mion), nato a Nole (Torino) l’11 gennaio 1940 (83 anni). Ex ciclista su strada. Vincitore di due edizioni del Giro d’Italia (1962 e 1963). «La sua caratteristica, il marchio di fabbrica di Balmamion, è aver centrato la storica doppietta senza aver vinto nemmeno una tappa. “Io andavo bene dappertutto, ero regolare, chiudevo spesso con i primi. Ma nelle volate di gruppo c’era sempre qualcuno più veloce di me. […] Una volta l’affermazione senza successi parziali poteva sembrare un difetto, oggi sembra un pregio, una magia. Ho sfruttato le mie caratteristiche: mi piaceva stare nell’ombra”» (Timothy Ormezzano) • «Il suo cognome […] è piemontesissimo, anzi canavesano: “I miei venivano da Ribordone, sopra Pont. Lì era diffuso il cognome Balma seguito da un suffisso distintivo: Balma Mion, Balma Tivola. All’anagrafe il cognome è in due parole, ma da quando vado a scuola lo scrivo sempre attaccato, Balmamion, che è anche il mio cognome ciclistico”» (T. Ormezzano). «Non fa in tempo a conoscere il padre, Michele, travolto fra le macerie di un bombardamento angloamericano mentre svolge il proprio lavoro di pompiere, il 25 luglio 1943, giorno della caduta del governo fascista. A tirarlo su pensa mamma Giovanna, di San Carlo Canavese – che tre anni prima di Franco ha messo al mondo la primogenita Michelina –, con l’aiuto di zio Francesco (da giovane ha anche corso, come d’altronde lo stesso papà di Franco), che introduce e segue le prime pedalate del nipote nel mondo del ciclismo: una vocazione, o un virus, di famiglia, sembra, perché sarà ancora un altro zio, Ettore, giunto 5° nel Giro d’Italia del ’31 e 17° l’anno seguente, a guidarlo al professionismo. Terminata la scuola di avviamento professionale, il ragazzo aiuta la mamma nel negozio di articoli casalinghi, poi a sedici anni lavora da idraulico con un artigiano e in seguito alla Magnoni e Tedeschi a Caselle. Inizia a correre all’età di 17 anni, allievo nella società diretta da Martinetto – con Brunero ed Enrici uno dei blasonati della Ciriè ciclistica degli anni Venti» (Aleardo Fioccone). «È vero che la mamma non voleva che facessi il corridore e ti aveva stracciato il primo tesserino? “Sì, è vero. Ma bisogna capirla: ero l’unico figlio maschio. Quando mamma mi trovò il tesserino, lo strappò. Ma io l’ho incollato con lo scotch”» (Paolo Ribaldone). «Nel 1958 […] arriva la prima vittoria, a Belmonte: […] un successo in solitudine, a mani alte. Sono i tempi in cui i corridori vanno alla partenza pedalando sulla bici, sulla moto di un parente. “Io stavo nel sedile dietro della Lambretta di zio Francesco, bici in spalla. Le gare si svolgevano nel circondario, e se la corsa non era stata troppo dura me ne tornavo sempre in bicicletta: non c’era il traffico di oggi”» (Fioccone). «È vero che la mamma, rassegnata dopo le prime vittorie del figlio, ti diceva “Vinci, ma va’ piano”? “Si, è vero, quello mi ripeteva. D’altra parte, […] un ragazzo che viene su senza il papà ragiona di più con la sua testa. Ero maturo prima di altri. Portavo i soldi a casa e non dovevo rischiare nulla. E facevo certi conti: prima di rischiare in bici, ci pensavo due volte: non ero di quelli che si buttano in discesa”» (Ribaldone). «Nel ’59 passa dilettante, viene assunto alla Fiat Ricambi, corre con la maglia rossa del Gruppo Sportivo Fiat. Vince la prima corsa in questa categoria a Ivrea, nel Trofeo Emanuele Garda, e quello dopo, il 1960, si rivela fondamentale. Dieci i successi quell’anno. […] In autunno s’impone d’astuzia nella corsa a tappe più prestigiosa, il Trofeo San Pellegrino. “Vincere la San Pellegrino era molto importante: in pratica voleva dire diventare professionista sotto la guida di Gino Bartali, che era il direttore sportivo di quella squadra dalla maglia color arancio”. Diventa professionista nel ’61, ma con il Toscanaccio Balmamion non correrà mai, preferendo i colori biancocelesti della Bianchi, la mitica maglia di Coppi, morto l’anno prima. E sempre grazie allo zio Ettore, che è amico di Giuseppe De Grandi, conosciuto come Pinella, vercellese di Pezzana, prima meccanico alla Fréjus poi alla corte del Campionissimo, promosso nel ’59 direttore sportivo della casa milanese. “Sono praticamente ancora un ragazzo quando passo al professionismo a 21 anni, ma, essendo entrambi della stessa razza piemontese, con Pinella ci capiamo subito, e il contratto che firmo è ottimo. Però dalla Fiat non mi licenzio: chiedo un anno di permesso”. Sempre con i piedi per terra, come gli hanno insegnato» (Fioccone). Quell’anno Balmamion corse il suo primo Giro d’Italia, organizzato in modo da attraversare gran parte delle regioni italiane per celebrare il centenario dell’Unità nazionale: alla prima tappa, a Torino, andò a vederlo anche sua madre, per la prima e unica volta. «Ricordo che in quella tappa andai in fuga e passai per primo sul Colle della Maddalena, proprio sopra la città: mia madre per una volta era là in cima, ad aspettarmi. Dopo la discesa fui ripreso dagli inseguitori in corso Traiano, ma resistetti con i primi e in volata al Palasport di Parco Ruffini fui battuto solo dallo spagnolo Poblet, un signor velocista. Però conquistai il Trittico Tricolore e guadagnai un premio in denaro di 250 mila lire, quasi 5 volte quello che prendevo al mese lavorando in Fiat» (a Giorgio Viberti). «“Poi nella tappa dello Stelvio sono caduto picchiando il ginocchio e ho faticato molto per raggiungere il traguardo”. Il giovane talento finisce 20° all’arrivo di Milano. L’anno dopo lascia la guida di Pinella per confluire nella Carpano, fabbrica di vermouth, maglia bianconera come la Juventus. […] Balmamion viene ingaggiato per le corse a tappe, “però mi piacevano anche le corse dure di un giorno, e infatti la prima vittoria è arrivata in una corsa in linea, al mio secondo anno da professionista”. È il 10 marzo ’62, giorno della Milano-Torino. […] Maggio arriva in fretta, e Balmamion è la punta per il Giro d’Italia in una formazione di soli italiani con l’eccezione dell’elvetico Kurt Gimmi. […] “Le corse di quegli anni non erano così esasperate tatticamente come lo sono oggi: lì, se eri in classifica, giocavi le tue possibilità. Una volta presa la maglia, l’ho portata fino a Milano, pur considerando che la tappa delle Balconate valdostane, che abbiamo corso il giorno prima, era zeppa di montagne: nove salite, compresa due volte l’ascensione al Col de Joux. Mi sono difeso bene”, commenta semplicemente. […] Una firma storica del ciclismo, Bruno Raschi, traccia dalle pagine del giornale organizzatore il profilo del giovane vincitore: “Franco Balmamion, un canavesano di ventidue anni, atleta virtuoso nel senso più letterale, personaggio sobrio, essenziale nella espressione dei più estremi sentimenti, ha vinto il 45° Giro d’Italia. Questo ragazzo ha sconfitto per strada, a poco a poco, atleti più illustri di lui, più invocati di lui”. E lui, rinsaldato dal trionfo, solo adesso torna in fabbrica per firmare il proprio licenziamento dalla Fiat. Le vittorie di quell’anno non si fermano al Giro d’Italia. A inizio autunno, a Pontedecimo, periferia di Genova, si corre il Giro dell’Appennino, corsa delle più severe fra le classiche italiane di un giorno, con il Passo della Bocchetta a 70 chilometri dall’arrivo, e altre sei difficili salite. Anche il giorno dell’Appennino, il 23 settembre, Balmamion è nella fuga buona. […] Non lo riprenderanno» (Fioccone). «Passa alla storia della corsa rosa per essersi classificato primo, a soli 22 anni, al Giro d’Italia del 1962 senza vincere neppure una tappa, cosi come nel ’63 (anno in cui si aggiudica anche il campionato di Zurigo). “Ricordo la conquista del primo Giro: in tv venivano trasmessi solo gli ultimi chilometri di ogni tappa e la gente, per strada, seguiva la corsa con grande entusiasmo, i bambini correvano e ti incitavano, tutti ascoltavano con attenzione la radio”» (Rosanna Schirer). «A 23 anni due Giri d’Italia vinti. Lapidario il giudizio esperto di Luciano Pezzi, ex gregario di Coppi: “Balmamion è stato un maestro di tattica. Ha studiato gli avversari, e una volta che li ha capiti li ha isolati, quindi li ha fatti fuori uno per uno”» (Fioccone). «Dopo i Giri vinti trovai la banda ad accogliermi, a Nole: mi portò in trionfo. Per noi che venivamo dalla provincia era tutto diverso, più bello forse» (a Cosimo Cito). «Per il mio modo di correre, io preferisco il Tour de France al Giro d’Italia. […] Il Tour è il Tour. E poi […] era più nel mio stile: pronti, via e si corre…» (a Roberto Orlando). «Ho sognato di fare la doppietta rosa e gialla nella stessa stagione, ma il Giro di Francia non mi ha mai voluto troppo bene». Nel 1963, infatti, due settimane dopo la sua seconda vittoria al Giro d’Italia, Balmamion iniziò speranzoso il suo primo Tour, ma «niente da fare… Sono caduto, sono finito in ospedale e ho dovuto ritirarmi perché avevo battuto anche la testa, e sono rimasto ricoverato quattro o cinque giorni». «A che cosa è dovuto questo Tour interrotto quando per uno come lui il giorno doveva ancora sorgere? È stata una foratura, il distacco del tubolare: lui è ruzzolato, e il pavé ha fatto il resto. Incominciano le stagioni in chiaroscuro, la dea che l’ha guidato alla soglia dei 24 anni con successi squillanti pare l’abbandoni per qualche tempo. […] Nel ’64 decide di cambiare aria. Lascia il clan Carpano e passa alla Cynar, altro aperitivo. Al Giro d’Italia si piazza 8° a sei minuti da Anquetil. […] L’ultima grande stagione è il 1967. Nel pieno della maturità, quando alle spalle si è già lasciato sei anni di professionismo ad alto livello, va ad affiancare Motta e Altig alla Molteni, ditta di salumi di Arcore. Arriva secondo al Giro d’Italia dietro Gimondi, ma davanti all’amico Anquetil. Diciotto giorni dopo l’arrivo del Giro, è alla partenza da Angers per il suo secondo Giro di Francia, nell’edizione che ritorna alle squadre nazionali. Due sono quelle italiane: una capitanata da Gimondi, con i gregari della Salvarani, l’altra con Balmamion e i compagni della Molteni. “Ognuno faceva per sé – racconta con rammarico –, non c’era spirito di squadra, e nemmeno fra le due squadre italiane c’erano accordi, cosicché quando Gimondi si è trovato fuori classifica non ci ha dato nessun aiuto, anche perché nel frattempo erano sorte polemiche fra i due gruppi”. […] Il 23 luglio, all’arrivo di Parigi, Balmamion sarà terzo in classifica, suo miglior risultato alla Grande Boucle. Una settimana appresso, le fatiche in terra francese danno un ottimo frutto al Giro di Toscana, prova unica per il titolo di campione d’Italia. È il 30 luglio. […] “Quando mancavano una trentina di chilometri al traguardo sono partito da solo in un tratto di falsopiano – dietro i miei compagni controllavano, Motta in particolar modo –, e sono giunto solitario con tre minuti e mezzo su Dancelli e gli altri”. La Gazzetta dello Sport titola: “Capolavoro di condotta e di mestiere”» (Fioccone). «Sono tornato al Tour nel ’69, ma andò male: ho avuto un incidente con una macchina, mi hanno dato 36 punti in un ginocchio, ero tutto fracassato. Quella volta ero in squadra con Gimondi, ma, insomma, la mia gara finì lì, e poi comunque non è che andassi quel granché… Ho riprovato nel ’70, Gimondi non c’era e non c’erano nemmeno tanti altri grandi. Quello è stato l’anno in cui mi sono divertito di più: abbiamo vinto la classifica a squadre, che allora era importante come la classifica generale, e poi abbiamo vinto la maglia verde nella classifica a punti, con il belga Godefroot che era dei nostri». «Ebbi una brutta caduta al Giro del ’71, vicino a Melfi: un cane attraversa la strada, un brutto volo come al Tour ’63. Spalla fratturata. Mia moglie, che è incinta di sette mesi, ascolta la radio, si sente male. Prendo l’aereo, arrivo a Torino e mio figlio è nato nella notte. Ho capito che era ora di smettere: avrei corso frenando, non sarebbe stato onesto continuare» (a Cesare Fiumi). Poco dopo «ho voluto comunque provare il Tour, ma una volta arrivato sulle Alpi ho lasciato perdere e son venuto a casa: non ce la facevo proprio». Smise effettivamente l’anno successivo, dopo aver concluso il suo undicesimo Giro d’Italia. «È demotivato, arriva alla conclusione a un’ora dal vincitore Merckx. “Avevo solo 32 anni, ma dodici di professionismo, mia moglie Rosanna con i due figli che mi aspettavano a casa”» (Fioccone). «Non ho guadagnato tanto da poter smettere di lavorare, ma ho vissuto una vita serena. Grazie alla bicicletta». Dopo il ritiro infatti Balmamion continuò per molti anni a lavorare vendendo e noleggiando ai bar jukebox, calciobalilla, flipper e videogiochi. «In bici, ci va ancora? “Vorrei, ma, un po’ per gli acciacchi, un po’ per le strade pericolose, non lo faccio. Preferisco giocare a carte, adesso, con gli amici al bar. […] Ho una villa in Costa Azzurra: lì qualche volta mi viene la tentazione di rimettermi in sella. Ma alla tv non perdo neppure una pedalata. Il ciclismo mi appassiona sempre”» (Cito) • «È tuttora l’ultimo corridore italiano riuscito nell’impresa di vincere due edizioni consecutive della corsa rosa. Gli stranieri invece sono stati Eddy Merckx (1972, 1973 e 1974) e Miguel Indurain (1992 e 1993)» (Franco Bocca) • Vedovo di Rosanna Bergese, madre dei suoi due figli, i quali però, per un errore anagrafico, hanno cognomi diversi: «Ufficialmente mia figlia Silvia risulta Balmamion e mio figlio Mauro Balma Mion» (a Marco Pastonesi) • «Nato e cresciuto nel Canavese, a Nole. Ora vivo a Ciriè, che da Nole dista 4 chilometri. Tutto il mio mondo è stato in questo breve spazio» • Da sempre fervente tifoso del Torino, ha dichiarato che indossare le maglie bianconere della Carpano gli procurava «una specie di allergia. Diciamo pure che io ho puntato al rosa […] per non doverle indossare troppo» • «All’epoca dei suoi successi lo chiamavano “il campione silenzioso”. Perfettamente in linea con il suo stile di corsa, mai troppo appariscente» (Orlando). «Mi chiamavano anche “cinesino” per il taglio orientale degli occhi, o “magninot”, spazzacamino, equivocando sul mestiere di famiglia: i miei erano calderai, producevano pentoloni in rame» • «Tattico, resistente e calcolatore. Perfetto per le corse a tappe: “Evitando le volate risparmiavo energia per il giorno successivo. E poi, a volte, lasciando strada agli altri nascevano amicizie, alleanze. Succede ancora oggi”» (T. Ormezzano). «Ero lì davanti, mi bastava. Tanto qualcuno degli avversari più forti saltava sempre. Il gruppo mi rispettava, non toglievo il pane di bocca a nessuno. Il pubblico forse preferiva altre cose, ma io ero fatto così. Conoscevo le mie possibilità» • «È soprattutto un piemontese. E i piemontesi che valgono cercano, in tutti i modi, di non dare disturbo. Far bene e non dare disturbo» (Gian Paolo Ormezzano) • «Ero da corse a tappe. In salita scattavo, in discesa frenavo, in volata ero fermo, ma in classifica ero sempre lì, nel 1967 secondo al Giro d’Italia e terzo al Tour de France» • «Chi sono stati i tuoi miti? “Da bambino facevo il tifo per Bartali”. […] Chi sono stati i tuoi rivali più tosti? “Il collega con cui ho lottato di più è stato Adorni”. Chi avresti voluto come compagno di squadra? “Adorni, Merckx e Bitossi. Comunque mi trovavo bene con tutti”. […] Quale campione ti ha impressionato di più? “Nel mio periodo, i due che ho ammirato maggiormente sono Eddy Merckx e Jacques Anquetil. Come vittorie Merckx non si può discutere, ma ho sempre ammirato di più Anquetil per la signorilità che aveva in corsa, verso i compagni e gli avversari”. […] Il miglior ciclista della storia? “È difficile da dire. Come uomo, perché è rimasto nel ricordo degli sportivi, direi Coppi, mentre per i tanti risultati ottenuti Merckx”» (Silvia Gullino) • «Che cosa non ti piace del ciclismo moderno? “È cambiato tutto. Non mi piace il modo in cui è interpretato. Una volta in tutte le tappe c’era la fuga che andava. Ora corrono tutti in gruppo, va via la fuga, che viene ripresa a pochi chilometri dall’arrivo. Il ciclismo di una volta era più combattuto, meno controllato, mentre quello di oggi è più manovrato, ma bisogna adeguarsi. Tolte le tappe di salita e quelle un po’ dure, grande spettacolo non c’è, se non nella volata finale”» (Gullino) • «Da innamorato della bici, in tutti questi anni che cosa le ha insegnato questa sua fedele compagna di viaggio? “Tante cose: il sacrificio, la fatica, l’umiltà, la sofferenza, il successo ma solo dopo essertelo guadagnato, dunque anche un senso di giustizia e di meritocrazia. La bici è un giudice imparziale e immediato: se pedali raggiungi l’obiettivo che ti sei prefisso, se giri il manubrio è comunque una svolta. Poi la bici è anche amicizia, rivalità, sfida, scommessa, sudore, sorriso. Una palestra di vita”» (Viberti).