16 gennaio 2023
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Biografia di Gabriella Pescucci
Gabriella Pescucci, nata a Rosignano Marittimo (Livorno) il 17 gennaio 1941 (82 anni). Costumista. Vincitrice, tra l’altro, di un premio Oscar ai migliori costumi (1994, per L’età dell’innocenza di Martin Scorsese), di due David di Donatello per il miglior costumista (1983, per Il mondo nuovo di Ettore Scola; 1987, per Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud) e di due premi Emmy per il miglior costumista (2011 e 2013, per I Borgia). «Il mio lavoro non è fare un bel vestito, ma fare un vestito che aiuti l’attore a entrare nel personaggio» (a Caterina Lunghi) • «Tutto è iniziato da bambina: andai al cinema e vidi Scarpette rosse e decisi che volevo fare quel mestiere. Sin da bambina disegnavo molto ed ero brava, e una mia insegnante mi stimolò a fare studi nel campo delle arti». Fu infatti la sua professoressa di educazione artistica delle scuole medie, Nada Valori, a convincere sua madre a farla studiare a Firenze. «Ho studiato all’Istituto d’arte a Firenze, facevo affresco, poi all’Accademia di belle arti, sempre a Firenze; poi, siccome il mio desiderio era fare cinema, sono venuta a Roma e ho cominciato […] a bussare a tante porte». «Avevo una lettera di raccomandazione da parte di un insegnante per Piero Tosi e la cartella dei miei disegni sotto il braccio. Non consegnai la lettera, per timidezza, ma, il lavoro, lo trovai lo stesso» (a Paola Jacobbi). «“Quando arrivai a Roma, alla fine degli anni Sessanta, ero una ragazzina. Mi accolsero Umberto Tirelli e Piero Tosi, due maestri non solo nella professione ma anche nella vita. Furono generosi a tirarmi su”. Che vento tirava allora nella capitale? “Roma era specchio di un’Italia meravigliosa, positiva: tutto si poteva fare, le banche davano i prestiti a chi aveva le idee, se andavi la sera in trattoria trovavi Pasolini e Moravia. Si lavorava fino a tardi, ma poi c’erano i cineclub, c’era tutto un mondo intellettuale nell’aria”. Lei veniva dall’Accademia d’arte di Firenze… “Che non avevo finito: scappai dopo un paio d’anni perché sentivo che il mondo mi aspettava”» (Valentina Grazzini). «Piero Tosi […] la introduce come sua assistente e le fa conoscere Luchino Visconti. La costumista racconta ancora oggi con passione l’“iniziazione” con il grande maestro. Non si è mai scoraggiata di fronte alla sua meticolosità, al suo perfezionismo quasi maniacale» (Laura Dubini). «Mi sono fatta le ossa e ho iniziato come assistente in Morte a Venezia e poi in Ludwig, entrambi di Luchino Visconti» (a Laila Bonazzi). Da Tosi «imparai molto. Per esempio, per Il Gattopardo Tosi e Visconti pensarono di far fare le camice rosse indossate dai garibaldini tutte diverse tra loro, con stoffe diverse, perché quelli non erano membri di un esercito regolare, per cui non avevano un’uniforme uguale per tutti, ma ciascuno indossava una camicia che era stata tessuta e tagliata dalla propria madre, per cui ognuna era diversa». «Dei primi lavori ricorda la fatica di dover trovare soluzioni con budget stringatissimi, “ma la giovinezza cura ogni cosa, per cui ho solo bei ricordi”. Niente a che vedere con le mega-produzioni in cui poi si è trovata coinvolta» (Bonazzi). «Ha lavorato sempre coi più grandi: Visconti, Scola, Bolognini, Risi, Leone, Rosi, Fellini, Scorsese. […] È stata lei a creare il saio austero di Sean Connery ne Il nome della rosa, a disegnare i raffinati completi della Deneuve in Indocina, a fasciare in abiti da sogno Elizabeth McGovern in C’era una volta in America, a scegliere il rosso fuoco per la vestaglia di Michelle Pfeiffer ne L’età dell’innocenza. Ed è proprio per questo film che Gabriella Pescucci meritò un Oscar, nel ’94» (Leonetta Bentivoglio). «Nel presentare gli Oscar del 1994, Sharon Stone descrisse così la professione del costumista: “Chi sa disegnare capi diversi per dozzine di attori, creare mondi che forse non esistono e produrre, sempre rispettando il budget, abiti, uniformi e tutto quel che serve per vestire il cast di un intero film. Non è un mestiere per deboli di cuore”. Poi, Stone consegnò la statuetta a Gabriella Pescucci» (Jacobbi). «“È proprio vero: è bello ricevere un Oscar. Sono tutti pazzi per questa serata. E io ero terrorizzata, emozionatissima, in sala. Non pensavo che mi chiamassero. Dino Trappetti voleva che mi preparassi una frase. Ma io, forse per scaramanzia, non l’ho fatto”, racconta, […] con pudore, Gabriella Pescucci. […] Salita sul podio, quando Sharon Stone, luccicante nel vestito di perle nero di Valentino, le ha consegnato l’Oscar, Gabriella Pescucci ha ringraziato tutti con semplicità e sincerità ed è scappata subito via. “Non so parlare. Sono però orgogliosa di questo Oscar, anche un riconoscimento al nostro grande artigianato”, dice, confessando che si è molto divertita, come una curiosa provinciale, a guardare da vicino così tanti attori tutti insieme. […] Dino Trappetti, che dopo la scomparsa di Umberto Tirelli manda avanti con tenacia la celebre sartoria romana da cui sono usciti i vestiti dell’Età dell’innocenza, è fiero dell’Oscar di Gabriella: “È un riconoscimento anche alla sartoria Tirelli. Del resto, Umberto considerava Gabriella una figlia. Significa che abbiamo lavorato bene”» (Dubini). Tra gli ultimi film cui ha collaborato, La fabbrica di cioccolato di Tim Burton (2005), I fratelli Grimm e l’incantevole strega di Terry Gilliam (2005), La leggenda di Beowulf di Robert Zemeckis (2007), Agora di Alejandro Amenábar (2009) e La prima cosa bella di Paolo Virzì (2010). In questi anni ha lavorato spesso anche per serie televisive: da ultimo per l’italo-britannica Domina, ambientata nell’antica Roma e girata a Cinecittà. «Nonostante la lunga carriera, la Pescucci si cimenta con l’antica Roma per la prima volta. “Alla mia età cerco ancora progetti capaci di sorprendermi: per fare qualcosa di nuovo. Non si smette mai di imparare”, racconta. […] Gli affreschi di Pompei hanno orientato il lavoro della Pescucci, che spiega: “I porpora, i rossi e gli ocra, stupendi. Mi sono ispirata anche alle sculture, che noi oggi vediamo candide perché scolorite, ma erano tutte dipinte. Ho utilizzato molto il rosso e l’oro perché erano i colori dell’impero. E, come tessuti per le tuniche, cotoni e sete, plissettati a mano, con intrecci sullo sprone [la sezione alta, ndr], che alla televisione, come al cinema, è sempre la parte più importante dell’abito, perché è quella che entra nei primi piani”. […] In tutto sono stati realizzati 800 abiti, tra tuniche e mantelli, sulla base di un centinaio di bozzetti interamente opera della Pescucci» (Sara Recordati). «“Mi sono presa anche un po’ di libertà, soprattutto nel tipo di decorazioni, per non risultare ripetitiva. Ai senatori ho aggiunto dei dettagli d’oro che forse non c’erano”. […] Domina non è la sua prima serie. “No, ho fatto I Borgia con la regia di Neil Jordan e Penny Dreadful. Le serie sono un tour de force: mentre si stanno girando i primi due episodi, io sto finendo i costumi del terzo e del quarto e già lavoro per il quinto e il sesto. In Domina ci sono anche molte scene per strada, con tante comparse. Abbiamo tinto, stinto, graffiato e strappato i tessuti degli abiti della ‘plebe’, in contrasto con quelli dei signori”» (Jacobbi). Nel marzo 2020 ha inoltre presentato la sua prima collezione di moda, «On Set by Gabriella Pescucci», disegnata per Weekend Max Mara. «Per la prima volta Pescucci ha disegnato bozzetti di abiti che sarebbero arrivati nei negozi e non indosso ad attrici. “Negli anni ’30 già si faceva”, spiega: “come il costumista americano Adrian, che disegnava i costumi per Greta Garbo e parallelamente collezioni per le boutique”. […] Sembra incuriosita e soddisfatta, Gabriella, mentre guarda gli abiti appesi. Sono ispirati a tre successi della sua carriera: Le avventure del barone di Münchhausen di Terry Gilliam, la serie tv I Borgia e L’età dell’innocenza di Martin Scorsese. […] Ci sono richiami ai pizzi, ai dettagli, ai volumi di quei costumi, ma anche al mare, che ricorda a Gabriella la sua città di origine, Rosignano, in provincia di Livorno» (Bonazzi) • Frequenti anche le collaborazioni col teatro, sia di prosa sia d’opera (particolarmente proficua quella col Teatro alla Scala di Milano). «Ah, la lirica. […] È il campo in cui si può davvero arrivare al massimo, in tutti i sensi: quando musica, voci e immagini si uniscono, è meraviglioso!» • «Ci torna, a Rosignano? “Certo, sempre. C’è la casa dei miei genitori, che divido con mio fratello. Lì ho le amiche di infanzia, i miei rapporti d’affetto: sono un capricorno fedele, io”» (Titti Giuliani Foti) • «Aspetto gli americani qui in Europa: quando devono fare un film d’epoca o una serie televisiva, vengono da noi: io li aspetto in Italia». «Gabriella continua a sentirsi italiana “in tutti i sensi. Perché considero Tosi il mio maestro di vita e di lavoro, perché qui sono le mie radici e la mia cultura, perché tra i miei incontri più importanti c’è stato Umberto Tirelli, perché le mie origini, le mie basi, la mia esperienza nascono dal grande cinema italiano”. […] Forse […] può spiegare perché gli italiani sono tanto bravi nel suo campo: “Io credo che sia per via del nostro straordinario artigianato. La tradizione italiana, in questo settore, ha radici lunghe e profonde nei secoli. Quando lavoro in America e mostro ai registi campioni di pelle e di stoffe ricamate, non riescono a capire come in Italia si possano ancora realizzare certe meraviglie. […] Il cinema americano è esperto di computer e nuove tecnologie, ma ha perso il rapporto con la manualità. Noi italiani siamo portatori di questa sapienza”» (Bentivoglio) • «Io vesto solo di nero, d’inverno, e di bianco, d’estate: un modo per fare la valigia in un battibaleno!» • Pratica regolarmente lo yoga. «Tramontata la giovinezza, bisogna prestare attenzione al proprio corpo. Inoltre fa bene dedicare un’ora solo a se stessi» (a Michela Tamburrino) • «Il cinema per lei, signora Pescucci? “Una bellissima forma di comunicazione. Devo molto al cinema: ho scoperto delle culture nuove, delle situazioni politiche che non conoscevo”» (Lunghi) • «Parliamo di moda: in tanti anni di carriera come ha interagito con i gusti del momento? “La moda può influenzare il mio lavoro in un solo aspetto: i colori. Oggi viviamo in un martellamento di colori che non è prescindibile, certo, ma a parte questo il mio lavoro è indipendente dalla moda”» (Grazzini) • «Bella signora toscana, tempra tenace e comunicativa» (Bentivoglio). «Semplice, spontanea e pure simpatica» (Grazzini). «Donna determinata e sgobbona» (Jacobbi). «È precisa, una perfezionista. E una donna schiva. Non ama parlare di sé: preferisce dare la parola ai suoi costumi» (Dubini) • «Anche la Pescucci riconosce due filoni di estetica tra i costumisti: quello più creativo, “alla” Danilo Donati, e quello più filologico, “alla” Piero Tosi. “Io, per ragioni di stima e di affetto, mi metto senz’altro dalla parte di Tosi, ossia nel filone orientato alla ricerca della fedeltà storica. Però confesso che con la maturità mi diverto a prendermi la libertà di fare degli errori”» (Bentivoglio) • «Come crea? “Leva la parola ‘creare’ dal tuo vocabolario: creava Michelangelo, noi non creiamo un cavolo. Si fa. Si comincia leggendo la sceneggiatura, ci si documenta su che cosa è successo intorno a quegli anni, ecc. Poi si cerca il materiale fotografico, e io incomincio a disegnare: per me il disegno è importante. Quando disegno anche un particolare, un polso, un colletto, me lo ricordo, avendo una grande memoria visiva: altrimenti lo dimentico con facilità. Per questo sto sempre a disegnare. […] Io disegno quello che mi piacerebbe fare, poi dopo c’è la discussione con il regista, mi confronto continuamente con lo scenografo per la parte colori, per evitare che uno si sieda su una poltrona con la stessa stoffa del vestito, bisogna prestare attenzione: c’è un lavoro molto vicino con la scenografia e con l’arredamento. […] Io dico sempre che la fantasia viene dalla conoscenza, altrimenti uno pensa di aver inventato la forma di un bottone e poi si scopre che invece è stata fatta cent’anni fa. La conoscenza, il documentarsi è fondamentale. Oggi è molto più facile: Pinterest è una fonte inesauribile di fotografie di qualsiasi cosa» (Lunghi). «Attenzione: il computer non ti fa un vestito! Anch’io faccio ricerche sul computer, certo, ma poi devo stampare, per avere delle copie in carta davanti agli occhi, mettere insieme una cartella da sfogliare di tanto in tanto. Lo dico sempre anche ai miei assistenti: stampate. Guardare sullo schermo non fa rimanere niente in testa, le immagini scorrono via». «Lei disegna tantissimo. Dove conserva tutti i bozzetti dei film che ha realizzato? “Per ora in tante cartelle sopra la libreria, a casa. Però mi piacerebbe farne una mostra, e magari, un giorno, venderli”» (Recordati) • «Un mestiere duro, il suo: non fiocchi e lustrini, come per faciloneria si potrebbe pensare. “È dura la parte organizzativa. Per me in particolar modo. Io non demando, sono prepotente e ho il difetto tipico delle donne, il senso di responsabilità. Anche se non sono sul posto voglio essere sempre informata su quello che accade. Alla fine la responsabilità è la mia”» (Tamburrino). «Fare il costumista è pesante e faticoso: il maggior nemico è il tempo. Di solito non abbiamo più di due mesi per preparare i costumi di un film, e raggiungono anche le 600 unità. Con le fiction è ancora peggio: lì le cose si rincorrono. Poi va rispettato il budget a disposizione. Insomma, va detto che si tratta di un gran lavoro di squadra e occorre, come nella vita, saper mediare, sempre! […] Occorre saper lavorare in team con diverse figure: fra queste gli assistenti, la sartoria. Io opero con la Tirelli di Roma, dove ho iniziato. Serve stare a stretto contatto con la tagliatrice di stoffe per costumi, un mestiere oggi quasi scomparso» • «I film in costume sono difficili perché ogni cosa va fatta su misura e se bisogna smontare tutto non c’è un negozio dove comprare al volo una gonna o un pantalone. Nei film moderni il guaio invece è che tutti ci mettono bocca, dal regista alla moglie del produttore» • «È molto più difficile realizzare l’abito di un povero che quello di un ricco. Va invecchiato, consumato, liso, graffiato, il tutto a mano, con olio di gomito» • «Si dice che uno degli aspetti principali del vostro lavoro sia aiutare gli attori. È così? “Sì, e bisogna diventare dei grandi psicologi. Gli attori sono vanitosi, se non si vedono abbastanza belli fanno i capricci. Allora bisogna convincerli che il personaggio non è scritto per essere bello: non è la bellezza che interessa al regista, e simili amenità. Però, va detto, negli ultimi tempi gli attori sono più elastici e disponibili, l’immagine della star è cambiata. Ma se propongono delle cretinate io non gliele lascio fare”. E i registi? “Più sono bravi, più sono ossessionati. Bisogna starli ad ascoltare, interpretare quello che vogliono”. Qualche nome di quelli con cui ha lavorato. Federico Fellini. “Per i costumi delle femministe della Città delle donne, mi disse: ‘Gabriella, pensa alla marmellata!’. Aveva ragione: doveva essere una mescolanza di stili, colori, nessuna doveva essere uguale all’altra”. Ettore Scola? “Lavorare con lui era facile perché, anche se esigente, gli piaceva parlare, era simpatico e cercava di essere sempre leggero”. Terry Gilliam? “Il mio amore, quello che adoro più di tutti. Un vulcano di intelligenza”. Martin Scorsese? “Scorsese è l’America un po’ inarrivabile, complicata. Ci devi prendere appuntamento tre settimane prima”. E Tim Burton? “Da anni lavorava con la sua costumista di fiducia, sua amica da quando erano ragazzi. Però, per La fabbrica di cioccolato, lei aveva altri impegni, così mi chiamarono. Andai a incontrarlo: nell’attesa passò Helena Bonham Carter, allora erano ancora sposati. Mi chiese: ‘Come va?’. Io ero titubante: le spiegai che c’era un po’ una barriera linguistica, io parlo male inglese. Helena mi rispose: ‘Non ti preoccupare. Tanto Tim non parla’. Infatti andò tutto benissimo”» (Jacobbi) • «Se Tirelli e Tosi furono i suoi maestri, chi annovera tra i suoi allievi? “Ci sono tre ex assistenti, Carlo Poggioli, Massimo Cantini Parrini e Gianni Casalnuovo, che si faranno strada da soli. Oltre ad Alessandro Lai, David di Donatello per Magnifica presenza di Özpetek» (Grazzini) • «Bisogna essere un po’ fanatici. Io e Massimo Cantini Parrini quando ci vediamo siamo capaci di parlare per ore di un bottone! Sempre nella speranza che nessuno ci senta, altrimenti ci prendono per matti» • «Il suo film del cuore tra i tanti che ha vestito? “Li amo tutti, aiutata in questo dal mio carattere, che mi fa dimenticare il negativo e ricordare solo il positivo di un set. La fabbrica di cioccolato è il più contemporaneo e forse il più modaiolo. L’attrice che ho vestito con più piacere è stata Michelle Pfeiffer, e ho avuto questo privilegio in ben due film. Era giovanissima e bellissima ne L’età dell’innocenza, che mi è valso il premio Oscar, e anche nel Sogno d’una notte di mezza estate. Un corpo fantastico e una donna molto simpatica. Una rarità. Ricordo con amore Le avventure del barone di Münchhausen con Terry Gilliam, uomo adorabile. Inutile però nascondere che C’era una volta in America di Sergio Leone è stato per me il film della vita. Molto per Sergio, che a dispetto della sua fama di burbero era una persona tenerissima e molto sensibile al bello. Si era creata una strana alchimia con Elizabeth McGovern, che all’epoca era pressoché sconosciuta e molto, molto carina. Tutti nei film si lavora a che il prodotto sia il migliore possibile, ma su quel set aleggiava qualcosa di più forte”. […] C’è una pellicola che avrebbe voluto fare e che le è scappata di mano? “L’ultimo imperatore era bellissimo: sì, mi sarebbe piaciuto”» (Tamburrino) • «Sono stata fortunata. Ho fatto e faccio un lavoro che mi piace ancora moltissimo, sono ottimista e dimentico sempre la parte sgradevole degli impegni».