18 gennaio 2023
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Biografia di Giovanna Marini (Salviucci)
Giovanna Marini (Salviucci), nata a Roma il 19 gennaio 1937 (86 anni). Cantautrice. «Diciamo che ho spesso cantato all’insegna del “du’ palle”».
Vita «Colta e borghese – il padre, Giovanni Salviucci (1907-1937), fu un promettente compositore; la madre (Ida Parpagliolo, 1904-1994, ndr) fu la prima donna a dirigere un’orchestra nell’Auditorium Augusteo – la famiglia scelse per lei una carriera accademica» (Laura Putti) • «“Mio padre – che non ho mai conosciuto, morì a 29 anni, quando nacqui – era un compositore, allievo di Respighi e Casella. Un talento anarchico le cui musiche sono ancora eseguite. Mia madre ha insegnato a lungo al conservatorio. Questo era lo sfondo. Studiai pianoforte. Una complicazione seria a un braccio mi impedì di continuare. A nove anni fui spedita in Inghilterra e lì per un po’ persi il contatto con la musica”. Quel viaggio perché? “A causa di un disturbo serio agli occhi provocato dall’avitaminosi. Venivamo da anni tremendi. Improvvisamente la guerra ci aveva reso tutti più poveri. Non c’era da mangiare. La mamma, per giunta, era una donna fuori dal mondo. Incapace di procurarsi alcunché. Pensava che la ‘borsa nera’ fosse non già il mercato parallelo e illegale per l’acquisto del cibo, ma letteralmente una borsa dal colore nero! Quando scoprì l’arcano vendemmo due pianoforti e una radio. Ma per me era tardi. Avevo cominciato a perdere la vista”. C’era la guerra? “La guerra era finita da un po’. Era il 1947. Fui spedita in Inghilterra, non lontano da Londra, ospite di una zia, architetto di paesaggi. Vi restai più di un anno. La mia vista migliorò, grazie alle cure e soprattutto al cibo. Tornai a Roma e a 13 anni feci l’esame per entrare al conservatorio di Santa Cecilia. Avevano da poco istituito un corso di chitarra classica. Decisi di provare”. So che ha studiato anche con Andrés Segovia. “Accadde dopo il diploma, quando entrai all’Accademia Chigiana di Siena per il corso di specializzazione. Ci rimasi due anni. Incontrai quest’uomo conformista, ortodosso, noioso che imprecava contro la musica moderna. Era perennemente circondato da una corte di spagnoli e di uruguayani. Ma quando imbracciava la chitarra avvertivi potente il prolungamento dell’anima”. La musica ha questo di prodigioso? “La musica, certo. Ma non solo. Direi che ogni arte, se è grande, è in grado di portarci in un altro mondo”. Il suo mondo, però, non restò quello della musica classica. “Sono le circostanze e gli incontri, oltre alle preferenze, a orientare il cammino di una persona. Non sono stata un’eccezione. Mi imbattei casualmente in un libro che raccoglieva i canti dell’Alta Savoia. Mi affascinava la metrica, la diversità sonora. Ne imparai alcuni a memoria. Cominciai così a interessarmi di canti popolari. Nel frattempo proprio a Roma Harold Bradley aveva fondato il Folkstudio”. Ci andò a cantare? “Praticamente dall’inizio. Quando Bradley tornò in America fu Giancarlo Cesaroni a rilevarne la gestione. E a rilanciarlo grazie anche ad alcune intuizioni felici. Qui mossero i primi passi personaggi come De Gregori e Venditti. Per tornare a me, una sera venne a sentirmi Roberto Leydi. Mi disse che aveva coinvolto, per un giro di concerti, Pete Seeger, il grande folksinger americano al quale lo stesso Bob Dylan aveva tributato il suo omaggio. Seeger venne a cantare al Folkstudio. Io, che conoscevo piuttosto bene l’inglese, fui invitata a tradurre a braccio le cose che veniva dicendo a commento alle sue canzoni. Fu una serata surreale”. Cosa accadde? “Per quanto sapessi l’inglese, non conoscevo le inflessioni e le sfumature dello slang americano. Dal pubblico cominciarono a ridere. Seeger si guardava nervosamente intorno. Insomma, fu un esordio alquanto impacciato”. Che anno era? “L’inverno del 1963. Leydi – che oltre a essere un grande etnomusicologo era anche un uomo paziente e generoso – malgrado l’incidente, mi chiese se volevo partecipare a Milano, alla casa della Cultura, alla presentazione del primo disco del Nuovo Canzoniere Italiano. Fu così che entrai in contatto con il meglio che in quel momento si produceva nella musica folk”. Chi conobbe? “Non c’erano solo cantanti. Ma anche intellettuali e antropologi. Conobbi Ivan Della Mea, Michele Straniero, Gianni Bosio. Si aggiunsero i nomi di Umberto Eco, Dario Fo, Giangiacomo Feltrinelli, Giovanni Pirelli, Diego Carpitella, Franco Fortini” […] Fu Giovanna Daffini a insegnarmi come cantano le mondine, a farmi capire la differenza tra canto contadino e canto lirico. Il primo non sfoga nella testa, ha una risonanza facciale. È una tecnica che pone una differenza culturale rispetto al canto lirico. Quando ascoltavo Bella ciao – che non è in origine un canto partigiano – mi colpivano non tanto le parole quanto la voce in qualche modo strozzata”» (ad Antonio Gnoli) • «È la voce degli anni Sessanta, di quella cultura che usava il patrimonio musicale della tradizione contadina e popolare (“delle classi subalterne” si diceva con terminologia gramsciana) come arma politica, e insieme come modello per canti di lotta e di protesta. Partita da Bach, arriva alla musica popolare grazie a Gianni Bosio, che a Milano ha fondato il Nuovo canzoniere italiano cui fanno capo le Edizioni Avanti e i Dischi del Sole. Da Bosio apprende non solo il metodo della ricerca ma anche “l’impegno della memoria, il bisogno di rivisitare il passato attraverso i documenti del popolo, i suoi canti, i suoi racconti”. Collabora con l’Istituto Ernesto De Martino, impara dai cantori contadini tecniche di emissione della voce e l’uso di armonie lontane dai modi classici e codificati, che impiegherà nella composizione delle sue cantate (la più celebre sarà il Lamento per la morte di Pasolini)» (Ranieri Polese) • • «La cosa strana è che l’America mi ha fatto scoprire le cose italiane. Cioè, io sono arrivata, partendo da quelle americane, a cui m’ero proprio dedicata, me le studiavo in America insieme a quelle italiane» (ad Alessandro Portelli, dal libro-cd Giovanna Marini, Lady of Carlisle, Nota 2013) • «La prima volta che ha presentato Bella Ciao a Spoleto si è scatenato il finimondo… “Sì. Fui incoraggiata dall’amicizia di Gianni Bosio e Roberto Leydi e convinta da Nanni Ricordi a cantare al Festival di Spoleto, davanti all’intellighenzia dell’epoca. Facevo parte del Nuovo canzoniere italiano, un gruppo molto vario, uniti da una passione politica: erano i tempi dei governi non esaltanti della Democrazia cristiana e della contestazione. Ai quei tempi non sapevo nemmeno la differenza tra rivoluzione e reazione, stavo messa proprio male! Con il Gruppo Padano di Piadena, Mario Lodi, il grande Rodari e altri nomi bellissimi arrivammo a Spoleto molto accesi, orgogliosi dello spettacolo chiamato Bella ciao. Mi inventai due canzoni spacciandole per canti popolari per non sentirmi troppo al di sotto delle aspettative. Il pubblico era molto nervoso e appena partimmo con Bella ciao ci furono proteste. Si alzò Michele Straniero e cantò una strofa di Gorizia: “Traditori signori ufficiali, voi la guerra l’avete voluta”, e successe un caos enorme. Una donna si alzò e urlò “evviva gli Ufficiali, evviva l’Italia” e con lei applaudì il pubblico patriottico. Tutti i parenti nostri si affacciarono dal loggione e intonarono Bandiera rossa e subito da sotto il loggione risposero con Faccetta nera. A quel punto Giorgio Bocca intonò “Fratelli d’Italia” per mettere un po’ di pace. Ci siamo trovati in questa situazione assurda nella quale la gente si aggrappava al sipario per menarci: decisamente una serata eccitante! (ride, ndr) Per il Codice Rocco, in vigore ai quei tempi, venivi arrestato per cose così. Andammo via e camminammo lungo la montagna di Spoleto: una notte bellissima che non dimenticherò mai, fatta di canti e balli. Ci riposammo vicino a una piccola pensione e spuntò da una finestra Giancarlo Pajetta – uno dei comunisti più convinti -, venuto ad ascoltare lo spettacolo e ci ospitò. Poi ci arrivarono una valanga di denunce» (a Guido Biondi) • Nel 1972 andò a Reggio Calabria per la grande manifestazione contro i fascisti del “Boia chi molla”: da quel viaggio nacque la celebre I treni per Reggio Calabria • «A riaccendere l’attenzione, una collaborazione non nuova per lei con un cantautore che si spende pochissimo, Francesco De Gregori, con cui nell’82 aveva interpretato brani del Titanic. Insieme hanno inciso canti della tradizione popolare nel bellissimo Il fischio del vapore (2002), e sull’onda della felice collaborazione era seguito un secondo album, Buongiorno e buonasera, ancora straordinario e tutto suo, sempre prodotto dal cantautore romano. Ballate, cronache e memorie drammatiche o spiritose, cantate e spesso recitate come il rap di oggi» (Marinella Venegoni) «Altri incontri hanno cambiato la vita di Giovanna Marini. Importante fu quello con Citto Maselli per il quale comporrà musiche per i film più importanti. “Avevo iniziato a cantare cose politiche, legate all’attualità. Le canzoni di Paolo Pietrangeli. Maselli mi fece conoscere Dario Fo con il quale, nel ’66, feci lo spettacolo Ci ragiono e canto. Fo avrebbe voluto che restassi con lui, ma era invadente, si appropriava delle mie cose. Me ne andai”. In più di cinquant’anni di carriera ha scritto musiche per fatti e personaggi che hanno segnato la nostra storia, da Falcone a Hulrike Meinhof, da Ustica a Pasolini; ha cantato i poeti e messo in musica Il secolo breve; ha fatto cantare l’Internazionale anche a gente non di sinistra e ovunque vada nel mondo è rispettata e accolta come una regina. Ma non le dispiace di essere diventata popolare in Italia soprattutto grazie a Il fischio del vapore, il disco inciso dieci anni fa con De Gregori? “Assolutamente no. Lavorare con Francesco è stato bello e il successo, grazie alla sua compagnia, mi ha fatto doppiamente piacere. Se volessi crearmi delle frustrazioni potrei benissimo, ma non ho mai provato rabbia, rancore, amarezza. La mia vita, anche prima di nascere, è stata piena di morte: mio padre, il più grande dei miei fratelli a diciotto anni, mia cognata della quale ho cresciuto due figli, e tanti dei miei amici musicisti. Ma neanche con Dio me la sono mai presa”» (a Laura Putti) • Vista in teatro al fianco di Umberto Orsini nella rivisitazione del lamento poetico di Oscar Wilde La ballata del carcere di Reading (regia di Elio De Capitani) «Giovanna è una grande artista. Ha scritto cinque ballate in inglese che canta ed esegue alla chitarra. Mi dà gioia stare in scena al suo fianco. Questo spettacolo funziona perché siamo noi due. Siamo due vecchi signori con la credibilità sufficiente per non essere sospettati di speculare sulle parole di un grande autore» (Umberto Orsini a Sara Chiappori) • Nel 2004 divenne la prima musicista a vincere il Nonino • Ultimi album pubblicati: Cantata a Riace (2019), Coro Arcanto: Te Deum per un amico. Dedicato a Giuseppe Bertolucci (2022) • Del 2021 il documentario di Chiara Ronchini Giovanna, storie di una voce (Luce Cinecittà) • Un matrimonio con il fisico nucleare Pino Marini, con cui visse brevemente a Boston nel 1964. Divorziata. Due figli, Silvia e Francesco, entrambi musicisti • Vive a Monte Porzio Catone, ai Castelli romani. «“Era il ’39 quando venimmo a stare in questa casa”, dice Giovanna Marini che dal ’93 è tornata a viverci. “Mio padre era morto nel ’37 a ventinove anni. In quello stesso anno ero nata io, ultima di quattro figli. Mia madre era in uno stato grave di depressione e fui messa a balia. Il nonno diceva che qui c’era aria buona. Ma noi bambini vedevamo solo grano e vigne, e strade non asfaltate”» (Laura Putti).
Politica «Si sente ancora di sinistra? “Sento di essere me stessa con coerenza, nonostante le incertezze e i dubbi. Provengo da quel mondo, anche se non so più bene cosa oggi rappresenti. Se avessi vissuto una vita da politico sarei una sopravvissuta. Ma ho vissuto una vita da musicista. E allora eccomi ancora qui. La mia ricerca del canto popolare si è legata ai valori della Resistenza e della Costituzione. Avevo come punti di riferimento: Vittorio Foa, Pietro Ingrao, Bruno Trentin. Maestri e amici nel rispetto e nella fede nell’uomo. Era questa la mia sinistra”» (a Gnoli).
Religione «Avevo una madre profondamente cattolica. Alla morte di mio padre si votò alla castità assoluta, trovando nella religione un forte sostegno. Mi sembrò un modo estremo ed eccessivo di attaccarsi a Dio. Però non posso dire di non avere fede, se non altro perché ho un fratello sacerdote col quale a volte discuto. Siamo il risultato delle nostre radici, siamo la nostra terra» (ibidem).
Amori «Preferisco l’eros eterno, quello che mi lega alle persone con cui condivido passioni e interessi. E quanto più l’eros è collettivo tanto più eleva quel che si fa» (a Luisa Pronzato).