19 gennaio 2023
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Biografia di Gianni Amelio (Giovanni A.)
Gianni Amelio (Giovanni A.), nato a San Pietro Magisano (Catanzaro) il 20 gennaio 1945 (78 anni). Regista. Sceneggiatore • «Un gaio che fa film tristi» (Camillo Langone) • «Un regista solitario, irregolare, fuori dagli schemi. Ha scritto e diretto film profetici, drammatici, moralmente forti» (Barbara Palombelli) • Debuttò con La città del Sole (1973), biografia di T. Campanella. Grande successo con Porte aperte (1990), un Nastro d’argento, una candidatura all’Oscar come miglior film straniero. Tra i suoi film: Il ladro di bambini (1992), Lamerica (1994), Così ridevano (1998), Le chiavi di casa (2005), La stella che non c’è (con Castellitto, 2006), Il primo uomo (dal romanzo di Camus, 2011), L’intrepido (con Antonio Albanese, 2013), il documentario Felice chi è diverso (2014), La tenerezza (2017, con Elio Germano), Hammamet (2020, con Pierfrancesco Favino), Il signore delle formiche (2022, con Luigi Lo Cascio). «Il suo mondo poetico ruota intorno alla figura del padre. Carnali o putativi, i padri sono assenti o lontani o inadempienti sebbene a tratti i rapporti con i figli siano interscambiabili. È un mondo declinato al maschile, pur permeato da sensibilità e tenerezze femminili: le figure di donna sono in disparte, opache, sfumate. L’assenza di storie d’amore è una costante» (Fernaldo Di Giammatteo) • Dal 2008 al 2012 è stato direttore del Torino Film festival. Nel 2010 ha dato alle stampe Un film che si chiama desiderio (Einaudi 2010), raccolta di saggi brevi sul cinema. Nel 2012 ha diretto la Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizzetti, che debuttò al San Carlo di Napoli. Ha esordito nella scrittura con il romanzo Politeama (Mondadori 2016), cui è seguito Padre quotidiano (Mondadori 2018). Ha vinto tre David di Donatello, un premio della giuria al Festival di Cannes, un Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, quattro Nastri d’argento. Oggi dice –con un briciolo di affettazione? – che i premi non lo emozionano più: «Forse non mi hanno mai emozionato. Godo quando vedo la sala piena. Sono stato viziato dal successo che ho avuto negli anni novanta, quando riempivo le sale. Il successo inaudito e inaspettato del Ladro di bambini mi ha cambiato la vita».
Titoli di testa «Non mi reputo un regista di nicchia. Mi piacerebbe essere considerato uno che il cinema cerca di farlo perché lo ama e non lo vuole tradire».
Vita Nato in un paesino sulle montagne della Sila, senza elettricità né acqua corrente. I suoi, Giuseppe e Audina, si sono sposati giovanissimi: lui a 17 anni, lei a 15. Quando Gianni è appena nato, il padre li lascia e emigra in Argentina. «Sono stato allevato solo da donne. Le mie nonne, mia zia e mia madre» • «Io non parlavo come un ragazzo, avevo un timbro da donna. Ascolti bene la mia voce. Non sente che è impostata? È diventata grave per ipercorrezione, per coprire il mio precedente tono di voce». Le sue prime letture sono i fotoromanzi, Bolero, Sogno, Grand Hôtel. «Un giorno vedo un giornaletto con delle foto di persone dalla cui bocca escono nuvolette con dentro le parole, chiedo che cosa sono, mia madre mi dice: questi sono attori che fanno un film» • «Quando ero piccolo, mia madre mi diceva: “Prendi Bolero e portalo alla comare Carmela, che non l’ha ancora letto”. E la comare Carmela lo mandava poi alla comare Titina. Da quel giro infinito il povero giornale usciva consunto, macchiato dal sugo che la lettrice era impegnata a preparare. Questa letteratura di seconda mano non l’ho mai tradita o rinnegata. L’italiano l’ho imparato attraverso Bolero e i fumetti. Prima non lo sapevo parlare, così come non lo sapeva parlare mia madre» • Altra grande scuola di formazione: gli sceneggiati televisivi. «Io non avevo la tivù però ce l’aveva il mio salumiere. Tutte le mattine facevo la spesa da lui e perciò era obbligato a ricevermi in casa all’ora del teleromanzo. Ero puntualissimo. Così ho conosciuto L’idiota di Dostoevskij e Nicholas Nickleby di Dickens, cose per me misteriosissime. Ricordo un lontanissimo e bellissimo Gabbiano di Cechov con una Ilaria Occhini da far paura. Me ne innamorai alla follia» (Antonio D’Orrico, Sette 9/9/2016) • Il primo giorno di scuola vera, Gianni dalla porta aperta vede la mamma che va a raccogliere la cicoria. «Mi metto a urlare per andare da lei. Mi prendo le prime bacchettate. Poi mi sono appassionato, non ho mai fatto assenze. Senza la scuola, sarei un delinquente. In Calabria la delinquenza non latita. Si rischia di diventare delinquenti ogni volta che non ci si accosta a qualcosa che ti migliora. Ci si chiede a che serve Iliade. È il poema dell’esistenza». Verso la fine degli anni Cinquanta, per le medie, deve spostarsi da San Pietro Magisano a Catanzaro. Svantaggio: deve prendere una corriera, arriva davanti all’istituto alle sei del mattino, quando ancora non c’è nessuno, una bidella si impietosisce e lo fa entrare. Vantaggio: a Catanzaro c’è il cinema. «Ho cominciato ad andarci ogni volta che potevo, e da allora non ho più smesso». «Da bambino ero posseduto dal cinema come l’indemoniata de L’esorcista. Quindi qualunque cosa, dal bullismo a scuola alla povertà in casa, perfino al sentirmi diverso dagli altri, mi veniva compensata dalle due ore che trascorrevo al Politeama» (il Giornale, 30/5/2017). «A parte l’antichità e i pirati, da ragazzo confondevo allegramente le epoche e tutto mi sembrava attuale, compresi gli indiani di John Ford e i cowboy di Howard Hawks. Nella mia beata ignoranza condividevo senza saperlo il principio che il cinema, quello vero, coniuga sempre il presente». Una volta, durante un film sui cowboy, perplesso, chiede alla nonna: «Come fanno i cowboy a sapere l’italiano meglio di noi che siamo a Catanzaro?». La nonna taglia corto: «Gli americani sanno tutto» • A dodici anni, Gianni è già un precoce fan dei film d’autore: «Mi ricordo che nel ’57 ho visto, scegliendoli da solo, i film italiani più belli: Il grido, Le notti di Cabiria, Le notti bianche...» • «Avevo quindici anni. Mio padre era tornato dall’Argentina da appena due giorni. Mia madre gli dice: esci un po’ con tuo figlio. Così andiamo sul corso, e passiamo davanti all’edicola dove è esposto il numero di Cinema nuovo con in copertina la foto di Jeanne Moreau in Ascensore per il patibolo. Volevo quella rivista (e quella foto), ma costava 400 lire. Mio padre era arrivato senza portarmi nessun regalo, io gli chiedo di comprarmi quel giornale. Ma lui mi risponde: “Con i soldi ci si compra il pane, non la carta”. Quel giorno, l’ho odiato con tutte le mie forze» (a Ranieri Polese, Cds 29/7/2010). «In Argentina alla fine degli anni 50 c’era stata una grave crisi economica. Doveva aver vissuto come vivono qui i senegalesi. Tornava da sconfitto e io, da liceale, lo intimidivo. Non lo diceva, ma si capiva. Ho reagito andando via, costruendo da solo» (Morvillo) • «Quando da ragazzo mi chiedevano cosa vuoi fare da grande io non rispondevo il regista. Dicevo: voglio studiare al Centro Sperimentale di Cinematografia. Sapevo tutto: mi ero abbonato a Bianco e Nero, il mensile del Centro, lo divoravo, c’erano stati Antonioni, Germi, De Santis, Bellocchio, mi sembrava la strada obbligatoria per arrivare al cinema. Ma vivevo a Catanzaro e trasferirsi a Roma costava...» (Maria Pia Fusco, venerdì 25/9/2015) • Film fondamentale visto in quegli anni: «Il boom di De Sica, con Alberto Sordi, del ’63. Lui interpreta un imprenditore che a un passo dal fallimento medita di vendersi un occhio per mantenere l’altissimo tenore di vita di sua moglie, Gianna Maria Canale. Al Politeama ridiamo moltissimo fino a quando Sordi, disperato, non le propone di andare ad abitare a Catanzaro, dove la vita costa meno. Lei inorridisce. Fa una smorfia di disgusto. Si rifiuta. Nel cinema cala il gelo. In silenzio, senza che nessuno si dica nulla, ci chiediamo se in fondo non abbia ragione» • «“In ogni famiglia c’è un tornante ed esiste qualcuno che decide se devi studiare, leggere, zappare la terra o prendere un diploma. A casa mia di laurea non si parlava. Volevano mandarmi alle magistrali, le scuole delle donne per antonomasia. Mi ribellai e mi iscrissi al Classico di nascosto. Mi muovevo curioso. Vedermi leggere, in un’epoca in cui a stento si apriva il sillabario, era già una conquista sociale. Un salto di classe» (Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, il Fatto 9/8/2015) • «A 17 anni, uscito dal classico, mi ero iscritto a Filosofia e facevo il supplente. All’alba prendevo il bus e andavo nei paesi di Calabria. Ricordo l’ansia del primo giorno. Per prendere tempo do ai ragazzi un tema sulla città che vorrebbero vedere. Tutti scrivono di Roma e del Vaticano. Uno consegna subito il tema: “Non mi interessa se la città è bella o brutta, io voglio andare a Torino. Perché lì c’è mio fratello che lavora”. È l’unico a cui metto 10, per la sincerità. Questa cosa mi ha convinto che forse era quella la mia professione» (Finos) • A un certo punto, a Catania, scrive per Giovane Critica, la rivista di Giampiero Mughini. «Mughini era sconvolto dalla mia ignoranza e che avessi letto i Karamazov a 14 anni non lo commuoveva. Capì che era inutile scavare e che più in là del cinema non andavo. Lui fu comunque generoso. Tornò a casa e stilò una lista di libri da leggere. Una lista scritta a mano, di suo pugno, con elenchi infiniti di libri imprescindibili. Non so, da qualche parte forse ce l’ho ancora» (Pagani e Corallo) • «A vent’anni, di passaggio a Roma, ho avuto la sfrontatezza di fare una telefonata a Vittorio De Seta, che aveva già fatto Banditi a Orgosolo, e lui mi ha ingaggiato per il film che stava preparando, offrendomi pure un modesto settimanale. Era una pacchia. Mi svegliavo alle quattro di mattina, per paura di arrivare in ritardo alla convocazione, mentre la troupe ancora dormiva beata… Ho avuto bisogno di tempo per metabolizzare la fortuna che mi era arrivata addosso. Per anni sono stato assillato da un incubo: che tutto potesse finire e che fossi costretto a tornare indietro. Nel momento in cui sono riuscito ad arrivare su un set, mi sono trovato ad amare il cinema-cinema senza guardare tanto per il sottile: di sicuro mi sono divertito di più a fare l’aiuto nei western che nei film intellettuali. A questo mi è servito l’apprendistato: non a imparare la tecnica, perché la tecnica si impara in fretta e si mette da parte. Mi è servito ad assaporare il gusto di fare questo mestiere» (Franco Montini, Rep, 1 /9/2013) • «Lei ha fatto un sacco di cose. Ha girato da anonimo spaghetti western, musicarelli… “Ho una lunga carriera di negro come si diceva una volta. Io, e qui lo dico e qui lo nego perché un ghost writer non deve mai svelare di essere il vero autore di un’opera, ho scritto il testo di una canzone degli anni Sessanta di grandissimo successo, ma non si deve sapere. E non mi sono fermato lì. Ho scritto perfino sceneggiature di film soft porno”» (D’Orrico) • «Ho fatto l’aiuto regista per 5 anni e per altri 5 ho girato per la televisione cose di cui non è che mi vergogni completamente. La fine del gioco, il primo film che ho fatto, è bello. E non disconosco neanche lo spot delle Smarties o i ritratti sportivi che facevo per Sprint. Nel ’67 mi occupai del Catanzaro calcio. In una provincia che contava 35.000 emigrati, i calciatori venivano tutti dal nord. Lo intitolai Undici immigrati”. Quanto hanno contato Sciascia e Volonté conosciuti in occasione di Porte aperte? “Devo essere sincero? Non più del servizio per Sprint sul Catanzaro. La verità è che nessuno di noi riesce a capire il momento in cui si sente davvero realizzato. Non c’è il tempo. E per quanto mi riguarda, neanche la smania di fare classifiche retrospettive. Mi sono goduto la mia vita da cineasta e me la godo ancora”» (Pagani e Corallo).
Amori «Perché nel 2014 ha fatto coming out? “Non è che prima lo nascondessi. E, se anche ora parlo, è perché l’operaio ne ha bisogno, il maestro scambiato per pedofilo ne ha bisogno. Devo farlo perché io stesso sono in debito con gli omosessuali morti in modo violento, come Pasolini» (Morvillo).
Amori/2 «Non dimenticherò mai una frase che sentì quando avevo 16 anni: “Un omosessuale o si cura o si ammazza”». Nel documentario Felice chi è diverso uno degli intervistati pronuncia una specie di requisitoria contro la parola “gay”. «Quel personaggio rimpiange con paradossale nostalgia le parole che una volta indicavano gli omosessuali. Dice che prima c’erano i recchioni, i femminielli... e poi (bum!) è calata la lastra di cemento armato della parola “gay” che è diventata l’unico modo di nominare gli omosessuali”. Un caso, avrebbe detto il Pasolini più corsaro, di omologazione culturale. “Forse per questo Felice chi è diverso è stato detestato dai gay. Sul web me ne hanno dette di tutti i colori. Ma io resto fedele all’insegnamento di mia madre: “Tu non sei prima omosessuale e poi un’altra cosa, tu sei una persona e devi puntare ad affermarti con le tue capacità. Sarai quello che sarai: un imbianchino, un avvocato o un regista. E poi, ma solo poi, sarai anche frocio”. L’errore dei gay oggi è che si alzano una mattina e dicono: “Io sono gay e sono appagato”. Non ho mai pensato al mio lato omosessuale come a qualcosa di cui vantarmi, su cui basare la mia vita…”. Non è un tratto identitario… “Per carità, no”» (D’Orrico)
Figlio Negli anni 90 un pastore albanese, malato, fece un lungo viaggio per parlargli. Disse che voleva affidargli Luan, suo figlio, 16 anni. «Cercai di prendere tempo. Guardavo Luan ed eravamo un uomo di quasi 50 anni che non aveva mai pensato di avere un figlio e un ragazzo di 16 che non aveva mai pensato di avere un altro padre. Lui quella frase non se la ricorda. Forse era troppo cruda, non voleva che gli arrivasse. Io capii che, adottando lui, adottavo un’intera famiglia: non potevo far pesare il distacco a nessuno di loro. Infatti, a Roma vennero anche i genitori, poi il papà è morto, la mamma oggi sta qui d’inverno» (Morvillo).
Figlio/2 «“All’inizio lo proteggevo in modo sbagliato, gli vietavo i lavori più umili. Oggi è un bravissimo operatore video”. Avete subito pregiudizi? “Un’attrice mi scrisse in una lettera: ‘È un’abitudine di voialtri esibire come figlio il vostro amante’. Scrisse proprio ‘voialtri’, come quando si dice ‘una di quelle’”. Le fece male? “Certe cose danno la possibilità di scremare le conoscenze. A volte, neanche sospetti l’abiezione altrui. Una persona mi ha domandato: ‘Non è pericoloso che un gay adotti?’. E io: lei ha figli? Sì? E quante volte ci va a letto?”» (Morvillo).
Nipoti Luan finì per sposare una polacca. «Sono l’esempio vero di multi nazionalità, di una possibilità di convivenza». Ora Amelio vive per le sue tre nipotine: Alida, Sara e Audina, «era il nome di mia madre».
Politica «La sinistra trinariciuta esiste ancora, eccome. Lo posso dire io, che ho sempre votato per il Pci, che voterò per tutte le sue diramazioni, io che ho amato il pragmatismo di Palmiro Togliatti, io che ero diessino già allora, io che avvertivo la luce di Enrico Berlinguer, io che mi sento orfano di quella forza, di quella guida insostituibile. Lo posso dire senza paura perché sono stato un vero sottoproletario, figlio e nipote di generazioni di emigranti, io che mangiavo carne una volta al mese, io che quando da bambino chiesi a mia madre: chi sono i poveri? Mi sentii rispondere: noi».
Vizi «Ho smesso da tempo di fumare, bevo con moderazione, e in quanto ai peccati capitali non li pratico proprio tutti e sette. Se andrò all’inferno, com’è probabile, sarà per aver abusato del cinema, fin da ragazzino» (dalla prefazione al suo Il vizio del cinema, Einaudi 2010).
Curiosità Abita nel cuore di Prati, a Roma • Si sveglia ogni giorno alle cinque del mattino • Non guida la macchina («Mio padre invece faceva l’autista e io ho faticato parecchio a prendere la patente e anche adesso guido in maniera micidiale») • Non fa vita mondana • Non riesce a oziare. «Le mie vacanze più belle sono i periodi che passo lavorando» • Vorrebbe fare una serie tivù, «ma non me la fanno fare!» • Colleziona locandine dei vecchi film • «Amo i film deprimenti, così quando esco mi lascio andare in risate liberatorie!» • Suo film preferito: La valle dell’Eden (Elia Kazan, 1955), in cui James Dean è un figlio non amato che, alla fine, si prende cura del padre nemico • I suoi morirono molto giovani, sua madre aveva 38 anni, suo padre poco più. «Mi ricordo che da Roma tornavo in treno a Catanzaro per dei documenti che mi servivano. Alla stazione trovo tutti i parenti ad aspettarmi. Non capisco perché, poi una sorella di mia madre mi dice: “Sai, tuo padre è morto”. E aggiunge: “Tanto a te di lui non importava proprio niente”. Resto senza dire nulla per qualche minuto, poi mi prende un attacco di disperazione che dura giorni e giorni. È da lì che sono cominciato a cambiare. Un tempo, come quando non rispondeva alle lettere che gli mandavo in Argentina, o quel giorno che non mi volle comprare la rivista, lo odiavo profondamente. Tanti anni dopo ho cominciato a capirlo». Rimpiange di non essere riuscito a perdonarlo finché era vivo • Da grande, è andato più volte in Argentina, alla ricerca dei parenti del padre. «Conosco mia zia, conosco tre cugini tutti e tre culturisti, dei giganti. E a questo punto comincio a cercare di scoprire il segreto di mio padre: anche lui aveva un’altra famiglia? Forse aveva avuto dei figli, e se sì, dov’erano?». A lungo si è chiesto se suo padre avesse una seconda famiglia nella Pampas, ma non è mai riuscito a scoprirlo • La nonna che lo portava al cinema superò i cento anni • Pensa che la Centrale di Milano sia la stazione più fotogenica d’Europa • Una volta, a Napoli, dei banditi per derubarlo gli puntarono un coltello alla gola • Così ridevano ebbe 6 miliardi e 840 milioni di lire di finanziamenti pubblici • Nel 2020 Hammamet fece un milione di euro il primo sabato, un milione la prima domenica. Quando i cinema chiusero – per via della pandemia – l’incasso totale era di sette milioni • Una volta, a Venezia, litigò con un critico nel bel mezzo di una conferenza stampa • «L’altro giorno una delle mie nipotine (sei anni) mi ha chiesto: “Ma tu sei vecchio o anziano?” E la sua gemella si è intromessa: “Che dici? Nonno è maturo”» (Montini, 2013) • È felice di essere stato giovane negli anni Sessanta, quando chi si prefiggeva un traguardo, poteva sognare di raggiungerlo davvero. «Questo è ciò che oggi manca ai giovani. Vivono in un mondo imbastardito che tarpa le loro ambizioni prima che nascano» • «È vero che la sua più grande gioia è di aver fatto quello che voleva? “È stato il privilegio più grande. Non è scontato essere così soddisfatti del proprio lavoro”» (Giornale) • Ancora oggi, quando va al cinema, si diverte come quando era bambino. «Chi fa il regista di solito frequenta poco la sala, al massimo va alle anteprime, alle proiezioni private. Io se non pago il biglietto non mi diverto, perché non mi sento libero. Penso di aver conservato nonostante tutto un’innocenza da spettatore ragazzino, provo un vero godimento quando si spengono le luci e comincia il film».
Titoli di coda «Cosa ne pensa degli Oscar? E di Benigni che si appresta a sbarcare a Los Angeles? “Sinceramente, non me ne frega niente degli Oscar. È un premio che l’industria cinematografica americana dà a sé stessa. Non bisogna fare un film perché vada agli Oscar, e poi dopo che hai vinto ne sei prigioniero, tutti si aspetteranno da te film da Oscar, non sarai più libero di lavorare come vuoi. Spero che Benigni ne vinca tanti di Oscar. E che, una volta tornato in Toscana, li butti tutti quanti nell’Arno”».